Quella tempesta di citochine che fa "esplodere" l'infezione da Covid

Quando si scatena una forte infiammazione si va incontro alla "tempesta di citochine", con esiti molto pericolosi. Esiste un modo per "prevederla" e giocare d'anticipo? Ecco cosa ci hanno detto due esperti

Quella tempesta di citochine che fa "esplodere" l'infezione da Covid

Il Covid-19 non colpisce tutti allo stesso modo e questo, ormai, lo sappiamo molto bene: si moltiplicano gli studi sulla genetica e sulla predisposizione di ognuno di noi al virus. Ma c'è qualcosa che a volte si sottovaluta perché non è il virus in sè che scatena le problematiche maggiori bensì la risposta dell'organismo quando sfocia nella "tempesta di citochine".

Di cosa si tratta

Non ci sono soltanto i fattori di rischio quali età, obesità e altre patologie a peggiorare il decorso del virus: infatti, soggetti sani possono andare incontro a complicazioni e pazienti più fragili possono rimanere immuni. Ciò che fa davvero la differenza è la risposta immunitaria dell'organismo quando riceve il virus. "Il Covid segue due fasi: in una prima fase è virale ed il principale meccanismo è la sua replica: il soggetto ha i sintomi dell'infezione quali febbre, dolori, mialgie, stanchezza e tosse perché questo virus colpisce le vie respiratorie causando una polmonite", dice in esclusiva per il nostro giornale il Prof. Marco Falcone, Professore Associato in Malattie infettive dell'Università di Pisa, in forza all’Unità operativa di Malattie infettive dell’Aoup e membro del consiglio direttivo della Simit (Società italiana di malattie infettive e tropicali).

Il ruolo delle citochine

L'infettivologo ci spiega che questa fase è caratterizzata dal rilascio delle prime citochine, sostanze che sono la 'spia' dell'infiammazione e vengono prodotte dai soggetti a livelli variabili: alcuni ne producono in alte quantità, altri in quantità più basse. Le citochine, però, sono anche la spia del sistema immunitario che si adopera ad intercettare il virus e prova a contrastarlo. Nella seconda fase, invece, mentre alcuni soggetti guariscono rapidamente senza nemmeno sviluppare i sintomi dell'infezione che rimane asintomatica e si evolve come una banale influenza (nella maggior parte dei casi), in una percentuale più bassa, invece, si sviluppa una forte risposta infiammatoria chiamata 'tempesta citochinica'. "Il sistema immunitario produce una massiccia quantità di queste sostanze e c'è un'iper-attivazione che porta ad un danno polmonare di tipo infiammatorio: non è più soltanto il virus che attacca le cellule polmonari ma è il soggetto stesso che produce l'infiammazione che porta alla Ards, cioè Sindrome da distress respiratorio, il polmone diventa bianco", ci dice il Prof. Falcone. I pazienti che sviluppano questa sindrome finiscono spesso in terapia intensiva.

Come si può prevenire?

Gli sforzi della ricerca si stanno concentrando nell'individuare dei marcatori, semplici esami del sangue che possano predire il rischio di sviluppare questa tempesta di citochine. "Esistono dei marcatori di iperinfiammazione: in base a quanto sono elevati nei soggetti che sviluppano questa sindrome citochinica, si dovrà intervenire non più con gli antivirali ma con antinfiammatori come il cortisone e tutti i farmaci dell'infiammazione tra cui gli anticorpi monoclonali, gli inibitori delle interleuchine ed il baricitinib, farmaci idonei a bloccare questa tempesta di citochine e l'evoluzione infiammatoria del Covid associata alla più alta mortalità", sottolinea l'esperto.
Ecco un farmaco. Proprio con il Prof. Falcone parlammo del baricitinib (qui l'articolo), farmaco già in commercio ed utilizzato normalmente per combattere l'artrite reumatoide che ha ridotto del 71% la mortalità in chi l'ha assunto, migliorando il quadro respiratorio e tornando ad avere una maggiore ossigenazione del sangue. In Italia, però, non esiste un protocollo unico così come ci ha detto in un'esclusiva il Prof. Bassetti, motivo per il quale questo farmaco non è detto che sia sempre, ed uniformemente, utilizzato.

Le differenze tra monoclonali

"Quando ho parlato dei monoclonali mi riferivo ai farmaci inibitori delle citochine, cioè dell'infiammazione: quelli che stanno testando sono i monoclonali anti-Covid, indicati in una fase precoce dell'infezione prima che si crei questa situazione infiammatoria", ci ha spiegato Falcone. I farmaci monoclonali che si usano ormai da anni servono soprattutto per i pazienti oncologici e per combattere alcuni tipi di tumori come melanoma, i tumori del polmone e del rene mentre altri sono attualmente oggetto di sperimentazione clinica in molti altri tipi di tumore come viene riportato in questo documento dell'Istituto Superiore di Sanità. "Quelli anti-Covid, che bloccano precocemente il virus, potrebbero bloccare anche l'innescarsi della tempesta citochinica secondaria alla replicazione del virus. Il vero problema del Covid è la complicanza infiammatoria che causa: scoprire precocemente i pazienti che poi sviluppano questa risposta infiammatoria eccessiva è l'unica via per migliorare la prognosi", afferma Falcone.

La genetica è decisiva

I ricercatori di tutto il mondo stanno cercando di studiare e capire i meccanismi per cui alcuni si ammalano gravemente ed altri no pur rimanendo a contatto con i positivi (come nel caso dei familiari): uno studio su Nature ha identificato alcune regioni del genoma che potrebbero contenere parte della risposta ma sono oggetto di studio anche semplici analisi al sangue in cui, grazie all'emocromo che serve a misurare la quantità di globuli, piastrine, ematocrito ed emoglobina, si potrebbe prevedere il decorso della malattia rilevando l’attività delle cellule immunitarie. "Adesso si stanno studiando dei parametri del sangue che, se presenti in fase precoce, predicono se quella persona andrà incontro ad una malattia grave o no ma si stava già facendo per la stragrande maggioranza delle malattie. Alcuni parametri indicano se qualcuno avrà o no la malattia, in parte con il Covid sono stati scoperti ma c'è ancora da lavorarci", afferma in esclusiva per ilgiornale.it Carlo Federico Perno, Professore di Microbiologia all'Università Medica Internazionale UniCamillus di Roma e Direttore di Microbiologia dell'Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma che ci ha spiegato come siano le caratteristiche genetiche della persona che regolano l'infezione e la gravità della malattia.
Il ruolo del gruppo sanguigno."Bisogna considerare due elementi: la gravità della malattia è sempre funzione della quantità e del tipo di patogeno che ci colpisce in combinazione alle caratteristiche della persona: alcuni si infettano con l'influenza ed altre no, alcune persone che si infettano con l'Hiv ed altre no e la stessa cosa vale per il Sars-Cov-2, alcuni si infettano ed altri no. Ci sono degli elementi genetici che sono stati dimostrati essere correlati all'infezione ed alla gravità della malattia uno dei quali è il gruppo sanguigno", ci dice l'esperto. Tra questi, uno dei più importanti è legato all'interferone, tematica che abbiamo trattato di recente grazie allo studio del Prof. Novelli e del suo staff dell'Università Tor Vergata di Roma. "Come dice il nome, è una molecola interferente con la replicazione virale: chi ne ha molto tenderà ad essere più reattivo nei confronti del virus, chi ne ha poco tenderà ad esserlo meno. Ha un senso ed una logica profonda ma non è diversa da tante altre malattie virali".

Il test che "predice" la gravità della malattia

Per conoscere il decorso e la gravità della malattia, come detto, si stanno concentrando tutti gli sforzi ma c'è già un test in grado di fare una "previsione", ed è quello sulla saliva. "Un lavoro sul New England di alcuni mesi fa indica come la quantità di virus sulla saliva possa essere rilevata e correla con la gravità della malattia", ci dice il Prof. Perno. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché si usano quasi esclusivamente i tampone rinofaringeo? "Perché sono registrati e certificati per dimostrare la presenza del virus e la sua quantificazione e nessuno ha ritenuto finora di dover modificare questa regola. Non sono stati fatti studi di comparazione che giustifichino il tampone salivare rispetto al tampone rinofaringeo, sono quelle cose strane a cui non saprei dare una risposta precisa, a volte nascono non dalla mancanza di evidenza scientifica ma dall'abitudine", afferma Perno.

Questa regola, però, non sempre vale per bambini e adolescenti per i quali è più semplice controllare l'eventuale presenza del virus dalla saliva. "Laddove il tampone si ha difficoltà a farlo nei bambini, si usa il test salivare ed i risultati sono comunque di ottima qualità. Piccoli studi dimostrano che, nella fase precoce della malattia, il tampone salivare contiene più virus di quello rinofaringeo".


Insomma, il buon senso vorrebbe che anche i tamponi salivari siano approvati ed affiancati ai rinofaringei per diminuire ulteriormente il margine di errore e semplificare le operazioni. Magari saranno approvati alla fine della pandemia...

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