La complicata vicenda delle acciaierie dell'Ilva, che ieri ha visto la Corte d'Assise di Taranto comminare pene assai pesanti a politici e imprenditori, rappresenta il punto d'incontro di tante contraddizioni italiane. Dinanzi a tutto ciò è comunque necessario essere realisti e, di conseguenza, non farsi soverchie illusioni sul futuro.
Le condanne decise dalla giuria popolare rinviano all'ipotesi di associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, avvelenamento alimentare, concussione e altro ancora. Sullo sfondo c'è una società che continua ad illudersi che si possa avere tutto e senza pagare alcun prezzo, continuando ad affidare allo Stato una serie di attività che esso non sa gestire, per poi prendere atto del fallimento e chiamare in causa i privati. Con un problema: che questi ultimi spesso sono scelti dai politici medesimi, si trovano per lo più a operare in un quadro nel quale le regole sono incerte, gli amministratori la fanno da padroni e anche per questo è raro riconoscere comportamenti guidati da un vero senso di responsabilità. D'altra parte, uno dei problemi cruciali di questo Paese senza bussola, è che non è facile riconoscere un autentico diritto dove, in sostanza, abbiamo quasi sempre semplici decisioni assunte da governanti o burocrati.
C'è, poi, il grande capitolo del Mezzogiorno e del sogno di un'industrializzazione chiamata a favorire una generale modernizzazione: con progetti e impianti, però, realizzati e gestiti in decenni dominati da una cultura ambientalista che sogna soluzioni ideali e a costo zero quando è all'opposizione, per poi a venire a patti con la realtà magari anche troppo quando è chiamata ad amministrare. Perché è senza dubbio criminale avvelenare il prossimo, ma non è nemmeno semplice lasciare senza prospettive e senza reddito decine di migliaia di famiglie, tra dipendenti e indotto.
A questo punto la Corte ha stabilito la confisca dell'area a caldo e se ciò non dovrebbe avere effetti immediati sulla produzione, è chiaro che il futuro dell'intera area industriale è quanto mai a rischio. Ne discende che ormai per Mario Draghi non esiste una scelta tra il bene e il male, ma semmai tra due mali da soppesare. O, comunque, si tratta d'individuare una strada che comporterà costi di vario genere e che qualcuno dovrà sostenere, perché non è vero che vi sono esiti perfetti che in passato sono stati rifiutati solo per disonestà o ignoranza.
Può darsi che nel futuro di Taranto ci sia uno smantellamento degli impianti che esigerà tempi lunghissimi, producendo vantaggi ambientali e gravosi oneri sociali. Ne verrà fuori una seconda Bagnoli, chiusa trent'anni fa e ancora in fase di riqualificazione? Non si può escludere. Oppure si sceglieranno altre strade, magari volte a una riqualificazione delle strutture attuali (ma siamo sicuri che tali investimenti si giustifichino dal punto di vista economico?). In ogni caso, tutti dovranno constatare che non c'è una bacchetta magica capace di risolvere al tempo stesso ogni problema.
L'ultima parola, lo sappiamo, spetterà alla politica e allora è facile prevedere fin da ora che quanti decideranno saranno probabilmente orientati a scaricare sul resto dell'economia italiana i costi del disastro tarantino. Saranno le risorse prodotte da una miriade di imprese distribuite sul territorio che verranno usate per provare a evitare il collasso della città.
I politici di professione, già all'origine di questa situazione, s'incaricheranno di trovare una soluzione quale che sia: e con ogni probabilità sarà di carattere
assistenziale. E questo Mezzogiorno, che già ora declina a causa dei troppi posti pubblici, dei redditi di cittadinanza e dei navigator, si avviterà ancor più su se stesso, prendendo per farmaco quello che nei fatti è un veleno.
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