Foibe, la "bimba con la valigia": "Così fecero sparire mio papà"

Egea Haffner è passata alla storia come la "bimba con la valigia". La fotografia è il simbolo della tragedia dell'Istria

Foibe, la "bimba con la valigia": "Così fecero sparire mio papà"

È la bambina con la valigia. Divenuta il simbolo delle Foibe. E ha il nome del mare. Egea. Sconfinato e senza confini. Quel mare che ha dovuto attraversare per scappare alle persecuzioni dei titini. Anche la tragedia della Diga del Vajont ha come simbolo una bambina. Quella bambina inginocchiata con il foulard in testa, davanti a quel vaso di fiori.

E qui invece Egea Haffner è una bambina riccia, con i boccoli in testa, che guarda altrove, il viso un po’ crucciato e nelle mani tiene un ombrello e una valigia. “Esule giuliana”, c’era scritto.

Lo zio Alfonso l’aveva messa in posa. Era il 6 luglio 1946. L’aveva messa in posa per farle una foto, per improvvisare una messinscena, per raccontare che ci fossero tutti quegli esuli costretti ad abbandonare il loro territorio per trasferirsi altrove, per salvarsi, per vedere una luce di speranza.

Il cartello con il numero degli esuli l’aveva fatto coincidere con il numero degli abitanti di Pola, forse ispirato dal presentimento di quanto stava accadendo. Lei era l’esule giuliana “n. 30.001” e fa parte di quei profughi che lasciarono le loro terre prima del 1947.

Egea Haffner nata a Pola nel 1941. Ora ha 78 anni e vive a Rovereto. Ieri sera era a Verona, al teatro Stimate, a presentare in esclusiva il primo e unico docufilm raccontato da lei in prima persona di quella "bambina con la valigia", simbolo degli esuli e dei racconti sulle foibe. Un documentario straordinario realizzato grazie all’associazione culturale Storia Viva, per la regia di Mauro Vittorio Quattrina. Alla presentazione anche il vicepresidente del Consiglio Regionale del Veneto Massimo Giorgetti, attento alle tematiche che riguardano l’esodo giuliano dalmata.

“Egea – ci dice Grazia Pacella di Storia Viva - ha rilasciato il permesso in esclusiva di narrare la sua storia attraverso un docufilm che abbiamo fatto realizzare partendo proprio dagli avvenimenti che portarono allo scatto di questa oramai famosissima foto”.

Già perché quella foto, nata un po’ per caso è il frutto di alcuni scatti che prima della partenza la nonna e la zia Ilse vollero scattare per conservarne il ricordo. Quel triste ricordo che si commemora il 10 febbraio. Così la vestirono con un abitino di seta nuovo, cucito dalla zia, chiamarono Szentiványl, il fotografo che le scattò alcune istantanee proprio sui gradini di ingresso della Villa Rodinis, dove abitavano gli Haffner.

Egea che da piccola la chiamavano Bibi in famiglia, era un po' infastidita dalle esigenze delle riprese fotografiche. Costretta a partire già nel 1946. “Quella foto è del 6 luglio 1946 – racconta Egea al giornale.it – mia zia aveva scritto la data dietro. Io avevo cinque anni. Dopo pochi giorni fummo costretti a fare le valigie e andammo in Sardegna. Ci ospitava una zia di Cagliari”.

E poi cosa accadde?

“Dopo un anno – ci racconta Egea - mia nonna paterna partì con il piroscafo Toscana. Era febbraio 1947 e i profughi andarono a Bolzano. La mia nonna mi voleva vedere e mia mamma quindi mi portò verso aprile maggio a Bolzano. Lì ci rimasi. Mia mamma mi lasciò con i nonni e poi ritornò a Cagliari e si risposò. Avevamo un negozio, all’inizio si dormiva qui dentro con una rete metallica, poi si andava in una pensione per lavarsi e poi dopo un po’ di tempo si liberò un appartamento a Bolzano ma c’erano altre due famiglie polacche. Poi fortunatamente si liberò un appartamento vicino al negozio e così il nostro Magazzino 18 lo portammo lì”.

Lei quanti anni aveva nel frattempo?

“Io avevo 9 anni e poi iniziai le scuole a Bolzano. Dopo queste la vita iniziò un po' a sorridere. Trovai questo lavoro, perché cercavano orfani di guerra, la persona che cercavano doveva essere o profuga o orfana di guerra. E così iniziai a lavorare nell’ Ente nazionale previdenza assistenza dipendenti statali. Diventai addetta responsabile, lavorai sia a Bolzano che a Milano”.

Lei cosa ricorda di quel periodo, prima del 1947?

“Ricordo gli allarmi, le sirene, le fughe nei sotterranei, nei rifugi, certe cose ti rimangono, ma ho dei flash. Mio papà è stato prelevato da casa la sera del 1. maggio 1945. Vennero due titini, mia madre andò ad aprire, mio padre si presentò alla porta, faceva l’interprete perché in casa parlavamo anche tedesco. Gli dissero che dovevano condurlo al Comando per alcune informazioni. lo rassicurarono, lui uscì col vestito che indossava e una sciarpa. Da allora non fece più ritorno. La sciarpa giorni dopo la videro al collo di un titino. Mia zia prese anche la bici per vedere se avevano notizie ma da quella sera non seppi più nulla di lui. Avevo 3 anni e mezzo”.

Sua madre le spiegava cosa stesse accadendo?

“Sì sentivo i discorsi in casa – dice - ma ero piccola non capivo tutto. Di certo è che tutta la nostra famiglia si è disgregata”

Il padre Kurt Haffner, 26 anni, probabilmente venne infoibato quella stessa notte nell’abisso di Pisino, era figlio di un ungherese di

Budapest che a Pola – città mitteleuropea – aveva una gioielleria, e di una viennese, pasticcera a Pola. La mamma, Ersilia Camenaro, era invece figlia di un croato e di una istriana di Pisino.

Egea ora vive a Rovereto dal 1972.

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