A volte tornano le parole della canzone «destra e sinistra» in cui Giorgio Gaber fa la parodia dell'ideologia di ogni colore e non puoi non dargli ragione. La polemica che è scoppiata sullo «ius scholae» ne è un esempio. Quest'ipotesi di riforma prevederebbe la concessione della cittadinanza ai minori stranieri nati in Italia, o comunque arrivati entro i 12 anni, che abbiano completato un ciclo scolastico di cinque anni. Naturalmente a sinistra c'è chi dice che è poco e a destra, invece, c'è chi sostiene che è troppo. Siamo agli slogan, alle parole d'ordine identitarie, nessuno si sofferma sul problema usando non dico tanto ma almeno un pizzico di pragmatismo.
Forse sarebbe il caso di partire dai dati della realtà, prima di farsi risucchiare dai pregiudizi.
E il dato centrale è che l'Italia è un Paese con una grave crisi demografica. Insomma, non facciamo più figli. Non so se il fenomeno nasca da una mutazione dei costumi o culturale, oppure se dietro a questo processo ci siano ragioni economiche e sociali. Qualunque siano i motivi la curva della natalità è semplice quanto spietata: all'inizio del 2023 i giovani fino ai 14 anni d'età erano diminuiti di circa 940mila unità rispetto al 2016 (rappresentavano il 12,5% della popolazione), mentre c'erano rispetto allo stesso periodo 130mila anziani in più oltre i 65 anni (equivalenti al 24% degli italiani). Negli ultimi due anni l'andamento non è cambiato. Anzi.
La verità è che la popolazione invecchia e il Paese va incontro a squilibri di ogni tipo.
Ad esempio, presto - ci manca poco - i pensionati saranno più numerosi degli occupati, per cui i costi della previdenza rischieranno di andare in tilt, visto che la quota della popolazione che produce ricchezza sarà inferiore a quella che dopo tanti anni di lavoro si gode un giusto riposo. Il calo demografico interviene anche su questioni più amene: ad esempio, se parliamo di calcio, è chiaro che su un milione di ragazzi hai la possibilità di trovare 10 fuoriclasse, mentre su 500mila la metà. È un dato statistico che spiega la crisi della nostra nazionale di calcio e la ragione per cui nelle nostre rappresentative vincenti trovano sempre più posto oriundi o immigrati di seconda generazione.
L'elenco degli squilibri dettati dal calo demografico è lungo, ma le soluzioni prevedono solo due opzioni: o la curva della natalità punta verso l'alto (ipotesi alquanto improbabile) o l'idea di assorbire nella nostra comunità nazionale giovani che di fatto sono nati in Italia o sono arrivati giovanissimi e attraverso la scuola hanno avuto un processo di italianizzazione, cioè sono venuti a contatto con la nostra cultura e con i nostri costumi, è l'unica scelta razionale. Una scelta al netto della sfera dei diritti che chi è in queste condizioni potrebbe legittimamente reclamare. Di più, se parliamo appunto di pragmatismo, si tratta quasi di una via obbligata se non si vuole il collasso del sistema Paese.
Se poi mettiamo da parte i pregiudizi e l'ideologia ci vuole poco a capire che lo «ius scholae» è l'unico modo per integrare davvero giovani che sono nati o già vivono da noi.
A cosa serve la scuola se non a questo?! Inoltre un processo del genere sarebbe anche «una palestra di italianità» per chi vuole diventare cittadino italiano di cui quei mondi che si ergono a custodi dell'identità nazionale dovrebbero essere ben contenti. Una strada sicuramente più matura, diciamoci la verità, rispetto alle polemiche sul colore della pelle dell'italiana Paola Egonu.
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