Come si è sempre meridionali di qualcuno - così parlò Bellavista - così, nella gara a chi la fa più politicamente corretta (la mossa), si è sempre perdenti. Si è sempre in difetto, perché c'è sempre qualcuno pronto a essere più corretto, cioè più estremista, perché il fanatismo, per sua essenza, vive proprio di eccesso (di stupidità, purtroppo). Insomma alla povera Lizzie Dunford, direttrice della casa-museo dedicata a Jane Austen a Chawton, nell'Hampshire, è capitata questa brutta sorpresa: lei era convinta di poter essere orgogliosa del proprio ruolo, quale ambasciatrice di una antesignana del femminismo, e invece ha scoperto che neanche Jane Austen va bene, per i canoni corretti. Perché, come ha spiegato al Telegraph, aveva «legami con la schiavitù».
Ora, che Jane Austen sia una antesignana del femminismo sarebbe già di per sé oggetto di dubbio, ma qui è l'ottusità a dominare, quindi capite: da eroina a criminale. Perché? Perché amava bere il tè. Perché indossava abiti in cotone. Perché nel tè, pensate un po', metteva lo zucchero. E queste, che secondo una logica normale sarebbero abitudini banali, diciamo pure di scarso interesse (specialmente rispetto ai romanzi - perché sarebbe per i suoi romanzi, che dopo oltre due secoli parliamo ancora di Jane Austen, o meglio la leggiamo, giusto?), secondo la «logica» di Lizzie Dunford, che segue la scia di Black Lives Matter, sono atti d'accusa, nel processo storico che vede imputata la grande scrittrice come colpevole di appartenere all'era del colonialismo britannico. Jane Austen «consumava prodotti dell'Impero».
Aveva addirittura dei legami con il mondo coloniale, perché il padre possedeva delle quote in una piantagione di zucchero ad Antigua. Magari - pensate - quello stesso zucchero che Jane versava nelle sue tazze di tè, che poi sorseggiava mentre scriveva i suoi capolavori, in quel cottage che oggi è diventato un museo; dove ora saranno esposti dei cartelloni per «mostrare gli aspetti legati alla schiavitù» della vita di Jane. La quale, peraltro, era abolizionista, contraria alla schiavitù e all'oppressione. Ma beveva il tè con lo zucchero.
C'è chi ha definito «follia» tutto questo, ma non basta.
Se già era fastidioso sentire etichettare Jane Austen come femminista, lo è ancora di più sentirla bollare come schiavista.
A Lizzie Dunford, e a chi ragiona (si fa sempre per dire) come lei, auguriamo di ritrovarsi senza romanzi di Jane Austen da leggere, costretta a guardare qualche film di Hollywood «inclusivo», «corretto» e noioso. Proprio come la sua «indagine storica», il suo ridicolo processo a posteriori, dove lei, il giudice, guarda la pagliuzza nell'occhio di Jane Austen, e non scorge la trave nel proprio.
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