L’ultima battaglia del politicamente corretto: via la parola "normale" dalle confezioni di shampoo

La decisione è stata presa da Unilever a seguito di un sondaggio. E così il termine "normale" sarà eliminato anche dalla pubblicità di creme e balsami per non creare discriminazioni

L’ultima battaglia del politicamente corretto: via la parola "normale" dalle confezioni di shampoo

È difficile immaginare che si possa correre il rischio di compiere una discriminazione anche se si parla di capelli. Ma nel tempo in cui domina il politically correct anche una semplice quanto banale affermazione sul tipo di chioma di una persona può risultare offensivo. Può sembrare una esagerazione ma non lo è. L'ultima vittima del politicamente corretto è la parola "normale" che compare sui vasetti di crema e le bottiglie di balsamo per capelli. Il colosso Unilever, azienda che spazia dall'alimentazione ai prodotti per l'igiene intima, ha deciso che tale termine deve essere bandito dalla pubblicità dei suoi prodotti di bellezza per evitare discriminazioni e, allo stesso tempo, per dare spazio al cosiddetto "inclusive advertising", termine usato per indicare l’intenzione di "parlare" a tutti senza distinzioni.

Fino ad oggi in commercio si trovano shampoo per i capelli secchi e grassi, balsami per i capelli ricci, crespi e colorati e anche prodotti per chi ha una capigliatura, diciamo così, normale. Questo almeno fino ad oggi. Perché lo shampoo per una capigliatura "normale" pare sia diventato il nuovo simbolo della discriminazione. Per questo, almeno nella dicitura, il termine deve subire la purga dell’inclusività a tutti i costi.

Quindi sui prodotti dell’azienda, titolare di oltre 400 marchi, non sarà più riportati la "scandalosa" parola. A spingere l’azienda a prendere una decisione tanto drastica quanto discutibile sono stati i risultati di un’indagine condotta su persone di diversa nazionalità. Come spiega il Giorno dalla ricerca è emerso che sette intervistati su dieci riterrebbero che l'uso della parola "normale" sulle confezioni abbia un impatto "negativo". Il 56% delle persone che hanno espresso il parere pensa che l'industria della bellezza faccia sentire tanta gente esclusa mentre il 52% ammette di valutare la posizione dell'azienda sulle questioni sociali prima di fare acquisti.

Ma non è tutto. Perché la stessa Unilever ha promesso di smettere di alterare digitalmente la forma dei corpi e il colore della pelle delle persone sulle confezioni, incentivando la presenza dei gruppi etnici più svariati. Insomma i consumatori, almeno quelli più inclini a seguire il verbo del politicamente corretto, vogliono sentirsi bene prima con la coscienza e poi con il corpo.

Vincenzo Zeno Zencovich, professore di diritto comparato all'Università Roma Tre, ritiene che il politicamente corretto sia un problema: "Si tratta di una forma di dogmatismo che usa tipici metodi illiberali: etichettare gli avversari, qualificarli come inadatti a una società civilizzata e meritevoli di essere banditi, evitati, esclusi da qualsiasi forma di rapporto". Leonardo Marabini, esperto di comunicazione e marketing, considera il politicamente corrette un'arma a doppio taglio: "Aiuta a risolvere situazioni di empasse ma va usato con cautela altrimenti produce effetti devastanti".

Nel corso del tempo il linguaggio usato quotidianamente ha già subito gli influssi del corretto agire. Basti pensare alla parola spazzino cambiata in operatore ecologico. O immigrato sostituito con migrante.

Per non dimenticare gli ultimi casi: mamma e papà divenuti "genitore 1" e "genitore 2". Spesso il politically correct, in bilico fra equità e ipocrisia, compie clamorosi passi falsi. E il caso dei capelli "normali" può essere un esempio.

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