L'alba di libertà della rivoluzione Z

I sogni non muoiono all'alba. Non sempre. I corpi sì, appesi, nel piazzale di cemento di un carcere, con un cappio che pende dalla gru

L'alba di libertà della rivoluzione Z

I sogni non muoiono all'alba. Non sempre. I corpi sì, appesi, nel piazzale di cemento di un carcere, con un cappio che pende dalla gru. È lì che a Karaj, a quarantadue chilometri da Teheran, i sacerdoti e i guardiani della rivoluzione khomeinista cercano di fermare il tempo. Così è stata battezzata nel 1979. Rivoluzione. Nel nome di Allah e contro lo scià. La rivoluzione costruisce una repubblica, che sulla carta sembra perfino avere una architettura platonica. Ci sono i saggi della fede e i guardiani che la difendono dai miscredenti: gli ayatollah e i pasdaran. La legge e l'ordine. Sono ancora lì, ma non hanno nulla di santo e di sacro. Sono le maschere di una teocrazia. Non hanno mai avuto così paura. È per questo che impiccano, senza senso, con processi farsa, senza diritto. Le condanne a morte arrivano una dopo l'altra per colpire un'altra rivoluzione, senza armi e senza violenza, di ragazze e ragazzi che sfilano in piazza con la consapevolezza di essere agnelli che vanno al macello. È così da Nord a Sud, un'onda che si allarga, e batte i piedi. Non sanno quando finirà e quanti morti dovranno contare, finora nelle strade e nelle prigioni sono più di cinquecento e settanta sono bambini. Chi si ribella è colpevole di fare guerra a Dio. Non sanno, qualunque sia il suo nome, che con quei cappi lo stanno impiccando. Dio è morto, come Mohsen e Majidreza, 23 anni, come Seyed Mohammad, 26 anni, e Mehdi di 21. Questa è la rivoluzione della generazione Z, i figli del nuovo millennio, che altrove è in cerca di un destino e qui lo sta affrontando, a costo della vita.

Mehdi Karami è un ragazzo curdo e ha scelto di dire «no», di scendere in piazza, il giorno che a Karaj i «guardiani» hanno ammazzato una sua coetanea con sei proiettili alla testa. Si chiamava Hadis Najafi e la sua colpa era mostrarsi su Tik Tok senza veli. Tutti e due sognavano un futuro migliore, come Mahsa Amini, la prima martire di questa storia. Le ragazze una dopo l'altra si sono tolte il velo, tagliandosi ciocche di capelli. È così che tutto è cominciato. Hadis raccontava questo nei suoi video: «Quando ci guarderemo indietro, tra qualche anno, saremo felici di vedere che tutto è cambiato in meglio». Mehdi la ascoltava, lasciando per un attimo gli allenamenti di palestra e gli incontri di karate. Le sue ultime parole sono state per il padre: «Mi hanno condannato a morte, ma non dirlo alla mamma».

Mohsen Shekari è stato il primo ribelle a essere giustiziato. Era l'8 dicembre. Tanti lo conoscevano per i suoi canti di rivolta, da rapper. Il processo è durato dieci giorni. Poi è toccato il 12 dicembre a Majidreza Rahnavard, di professione wrestler. Lo hanno giustiziato nella pubblica piazza.

Mohammad Hosseini, maestro e allenatore di bambini, è morto lo stesso giorno di Mehdi, come in una preghiera di gennaio, anche lui curdo, anche lui violentato e torturato, come accade a tutti quelli che finiscono nelle celle della repressione, uomini e donne, madri o adolescenti. Il prossimo potrebbe essere Mansour Dahmardeh, ventiduenne e disabile, reo di aver dato fuoco a una gomma. L'accusa è «corruzione del genere umano».

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