L'ambiguità del lupo solitario

Sui media, lo status del "kamikaze" sta cambiando, perde peso o fascino e c'è da capire se questa sia una cosa buona o cattiva, o addirittura pericolosa

L'ambiguità del lupo solitario
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È l'espressione «lupo solitario» la prima ambiguità: ossia se noi guardiamo al lupo (temibile, arguto, rispettato) oppure al solitario, inteso come emarginato sociale, solo persino tra i terroristi, un disperato che un tempo magari si sarebbe sparato in testa e oggi invece si nobilita (si fa per dire) con una sigla jihadista come sfondo. Certo è che, sui media, lo status del «kamikaze» sta cambiando, perde peso o fascino (sempre per dire) e c'è da capire se questa sia una cosa buona o cattiva, o addirittura pericolosa: perché potrebbe abbassare la guardia a fronte dell'imprevedibilità del depresso e dello sfigato. Con il 42enne Shamsud-Din Jabbar forse è andata un po' così: i media hanno descritto i suoi precedenti penali, il divorzio, i debiti eccetera quasi come la premessa esistenziale del suo lanciarsi sulla folla con un pick-up, uccidendo 14 persone e ferendone più di 30. Uno sfigato. Una lettura superficiale che però si avvicina probabilmente alla verità.

Eppure i kamikaze hanno cambiato la nostra vita. Molti sono cresciuti con l'idea fumettistica dei piloti giapponesi che durante la Seconda guerra mondiale si buttavano contro le navi nemiche, autentici missili umani il cui status era rispettato dall'opinione pubblica (giapponese) e da un «codice del guerriero» che ne faceva tutt'altro che dei plagiati. Poi l'11 settembre 2001 ha fatto da spartiacque: per ricordarsene basta prendere un qualsiasi aereo o andare a un mercatino di Natale. L'inquietudine non è cambiata (anche se ci si abitua a tutto) ma lo status del kamikaze forse è cambiato, sì.

I terroristi del 2001 sembravano tutt'altro che disperati, gente ambientata benissimo (immigrati erano i loro nonni) e che aveva studiato, vantava una professione elevata: uno dei terroristi delle Torri Gemelle aveva preso persino il brevetto di pilota di linea, apposta. Il 2001 e gli anni successivi furono i peggiori, perché tutti erano atterriti dal concetto di chi «ama la morte come noi amiamo la vita». I kamikaze prima ancora di morire erano già morti, proiettati nell'eternità di chi sarebbe vissuto per sempre come icona sacrificale di un gruppo. C'entrava il nostro fumetto del kamikaze giapponese? Sì, il meccanismo jihadista era lo stesso, una comunità chiusa con una connotazione mistico-militare dove i partecipanti si sentivano affratellati nella realizzazione di un progetto di vitale importanza; una visione purificante e di rinascita che, prima del 2001, si era rivista nel movimento giapponese Aum Shinriko, tra i cui affiliati c'erano ingegneri e scienziati: per chi non lo ricorda, furono quelli che rilasciarono del gas nervino nella metro di Tokyo, era il marzo 1995.

In Italia mancano studi sui kamikaze che contemperino l'esperienza militare a quella psichiatrica. C'è solo qualcosa in inglese. Il noto telefilm israeliano Fauda dipinge i kamikaze perlopiù come dei plagiati, dei bisognosi di denaro per la famiglia. Tra gli psichiatri c'è il problema grottesco della mancanza di soggetti vivi da studiare: in Francia ce n'è uno, poi in Norvegia c'è Anders Breivik, che però non si sa quanto c'entri. C'è un gruppo di studiosi viennesi che ha tirato in ballo, nel 2018, persino una formica del Borneo con vocazione da kamikaze, la Colobopsis explodens.

E, a proposito di animali, si torna al lupo. Solitario.

Che poi è una leggenda, quella del lupo solitario: non esiste, se non sporadicamente, è un animale sociale organizzato per branchi. Militarmente, i branchi umani, sono stati quasi tutti spazzati via. Ma capita che qualche solitario, da noi, s'inventi che ne esista ancora qualcuno da qualche parte. Più solitario che lupo.

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