È andato avanti per due anni a dissertare sul centro, ad elogiare i valori liberali, a teorizzare il «correre da soli» per evitare di inquinare la propria identità. Poi Carlo Calenda, a tre giorni dallo scioglimento delle Camere, ha lanciato il contrordine compagni - l'espressione più calzante visto l'epilogo - e si è messo a trattare con Enrico Letta per mettere in piedi un'alleanza che mischia il suo Fronte Repubblicano, con tanto di fuoriusciti di Forza Italia come Gelmini e Brunetta, con il campo più o meno largo del segretario del Pd. Un mezzo guazzabuglio in cui finirà un po' di tutto, da post comunisti come Roberto Speranza, ultima appendice di Massimo D'Alema, a ex grillini come Giggino Di Maio, orfano di Beppe Grillo. Forse non mancheranno neppure un comunista doc come Fratoianni e un ambientalista in trincea come Bonelli. Una compagnia di giro che, vista la coerenza, se ci fosse bisogno sarebbe pronta ad allearsi all'indomani del voto con il trio lescano: Conte, Travaglio e il Dibba. In fondo Letta fino all'ultimo ha tentato di assicurare l'appoggio esterno dei pasdaran grillini al dimissionario governo di Mario Draghi.
Insomma, siamo alle solite, sta andando in scena un'altra (grande) presa in giro. Alla maniera di sempre: una chiamata alle armi ideologica, che ritira fuori l'armamentario tradizionale della sinistra (dai rischi per la democrazia, al pericolo populista, all'allarme sul fascismo) per coprire le contraddizioni di uno schieramento variegato in cui c'è tutto e il suo contrario, senza identità. Siamo alla riedizione della gioiosa macchina da guerra edizione «2.0», visto che sono trascorsi trent'anni dalla prima. O sarebbe più preciso parlare di una nuova armata Brancaleone con Letta nei panni del «Branca» e Calenda in quelli di Thorz, il guerriero teutonico con il pentolame addosso interpretato da Paolo Villaggio. Già, perché almeno la «macchina» di Occhetto aveva un marchio di sinistra, mentre quella di Letta è una macedonia in cui i sapori si confondono al punto da diventare stantia. L'unico accorgimento è il riferimento all'«agenda Draghi», cioè il programma di un governo di unità nazionale, individuato sulla base di un minimo comun denominatore per forze diverse che non per nulla mantiene un'impronta generica sulle tematiche che possono dividere, dalla sicurezza all'immigrazione. Insomma, il programma di un esecutivo istituzionale, non di una coalizione politica.
Ma a parte Letta - che nel disegnare un campo largo, uno stretto e uno medio deve aver perso la testa - e Renzi, le cui intenzioni com'è nel personaggio sono tutte da verificare, la vera delusione è Calenda. Il leader di Azione è andato avanti per mesi a far proclami ai quattro venti per presentarsi come il campione del riformismo, del liberalismo, della modernizzazione e ora scende (sempre che non cambi idea) a miti consigli per assicurarsi quattro poltrone.
Non osa per inaugurare una nuova stagione, ma ripete la parabola di quegli uomini nuovi che finiscono per impantanarsi in costumi, liturgie e atteggiamenti stravecchi. La ragione? Manca di gusto per il rischio e il coraggio se uno non ce l'ha mica se lo può dare. Manzoni docet.
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