Quella bimba con la valigia simbolo degli esuli giuliani: "Prego per i piccoli ucraini"

Egea Haffner è la bimba con la valigia simbolo dell'esodo e delle persecuzioni degli italiani del confine orientale. Oggi prega per la pace e perché i piccoli profughi ucraini possano fare ritorno alle proprie case

Quella bimba con la valigia simbolo degli esuli giuliani: "Prego per i piccoli ucraini"

Per più di quarant’anni quella foto è rimasta chiusa in una vecchia scatola. La scatola dei ricordi. Egea Haffner non l’aveva dimenticata. Sapeva esattamente dov’era ma non la guardava quasi mai. Non ne aveva bisogno. Le bastava chiudere gli occhi per rivedersi bambina il giorno in cui era stata scattata: 6 luglio 1946. Egea ha quattro anni. È vestita con l’abito buono, le hanno fatto dei bei boccoli, in mano tiene un ombrellino e una valigia. L’espressione però è imbronciata. Probabilmente si chiede a cosa serva quella pantomima. È stanca di posare e tutto quel belletto la rende insofferente. Non può certo immaginare che la sua foto diventerà il simbolo dell’esodo e delle persecuzioni di un intero popolo. Vorrebbe solo tornare a cacciare tesori nel giardino dei nonni. “Era un bel giardino con un nespolo e una fontana piena di pesci rossi, i ricordi più lieti della mia infanzia a Pola sono legati a quel posto, dove andavo a caccia di sassolini e petali”, racconta l’ex bambina con la valigia, oggi ottantenne.

La signora Haffner è molto attiva sui social network. Li usa per promuovere le tante iniziative di divulgazione della storia del confine orientale che tiene a battesimo: convegni nelle scuole, inaugurazioni di luoghi del ricordo e presentazioni della sua autobiografia (“La bambina con la valigia”, ed. Piemme). Ed è proprio sui social network che concordiamo il nostro appuntamento telefonico. Ha risposto al primo squillo, chiedendoci di richiamare dopo qualche minuto perché stava infornando lo strudel di ricotta. Lei lo chiama lo “strucolo”. Come lo chiamano le genti del Carso e come lo chiamava sua nonna viennese da cui lo ha imparato. È un dolce della tradizione istriana e viene da lontano. È migrato dall’Impero ottomano al Vecchio Continente seguendo la rotta delle conquiste turche. È un dolce cosmopolita. Egea è cosmopolita. Nata italiana in una terra all’incrocio di popoli e culture. La sua Istria. Lì ha lasciato un pezzo di cuore, assieme al segreto della scomparsa di suo padre.

Egea Haffner

Kurt Haffner, orologiaio di professione, non aveva ancora compiuto 26 anni quando l’hanno portato via. Egea di quella sera non ha ricordi. Sa quello che le ha raccontato sua nonna. La vedeva ogni sera lasciare da parte un panino “nel caso dovesse tornare papà”. Un rito che si è protratto negli anni, nonostante il tempo l’avesse ormai svuotato di ogni speranza. “Gli agenti dell’Ozna sono venuti a prenderlo di sera, erano i primi di maggio del 1945, dissero che li doveva seguire al comando e che si trattava di una mera formalità”, racconta Egea. Kurt si fida. Non ha mai preso la tessera del Pnf. Si è sempre tenuto a una certa distanza dalla politica. È un uomo per bene e pensa che tutto sommato non ci sia nulla da temere. Esce di fretta, giusto il tempo di agguantare la sciarpa di seta a quadretti. La stessa comparsa qualche giorno più tardi al collo di un titino, incrociato per caso dalla famiglia Haffner nel corso delle estenuanti ricerche intraprese per ritrovare l’amato Kurt. “Lì capimmo che aveva fatto una brutta fine”, ricorda l’esule.

Si pensava fosse stato internato in un campo di prigionia. Con quale colpa? L’unica che gli si potesse ascrivere in quei tempi sciagurati era conoscere il tedesco. “Aveva dato una mano ai tedeschi con qualche traduzione, un’attività sporadica, fatta solo per arrotondare, forse lo credevano in possesso di chissà quali informazioni”. Fatto sta che da quella sera di Kurt non si avranno mai più notizie. “È sparito nel nulla, non c’è neppure una tomba dove portargli un fiore”. L’anno successivo la famiglia Haffner si separa. È il giorno dell’addio e non è il 6 luglio del 46, bensì il 10. Stavolta si parte per davvero e non è solo una messinscena. Egea non ha l’abito della festa ed i capelli sono increspati dalla bora. Sul pontile dell’imbarcazione che la porta al di qua dell’acqua vede quella striscia di terra che chiama casa farsi sempre più sottile. Inizia così la stagione dell’esodo. Egea e sua madre passano un periodo a Cagliari, poi solo lei si ricongiungerà ai nonni paterni che nel frattempo sono arrivati a Bolzano. È con loro che cresce e si fa largo pian piano nel nuovo mondo.

Egea Haffner

Non è facile, ma si stava insieme e ci si voleva bene. I nonni Haffner, orologiai da generazioni, riaprono l’attività in centro. Il negozio è piccolo. E lì dentro ci dormono in quattro: la piccola Egea, due zii ed i nonni. “Dopo la guerra non c’erano alloggi, era miseria nera per tutti”. Le condizioni degli Haffner migliorano con il tempo, prima si trasferiscono in un appartamento condiviso con altre due famiglie di profughi, poi finalmente in una casa tutta per loro. Egea diventa grande e si sposa, oggi vive a Rovereto ed è nonna. Le sue due figlie, Ilse e Roberta, scherzano: “Mamma sei diventata come la Ferragni”. Sì, perché da quando quella foto ingiallita è uscita dalla scatola ed è stata usata per la prima mostra non si è più fermata. Ed Egea ha deciso di seguirla, facendosi in quattro, spesso anche in otto, per portare la sua testimonianza in giro per l’Italia. “A Fertilia, dove hanno trovato accoglienza tanti giuliano-dalmati, ho posato la prima pietra del museo etnografico”, racconta orgogliosa.

Nella sua Istria c’è ritornata in almeno due occasioni. La prima, nel 1979. Quell’anno si è spinta fino al ciglio della foiba di Pisino, per guardare nell’abisso che probabilmente ha inghiottito suo padre. La seconda, ad inizio 2000, per rivedere la vecchia villa liberty dei nonni. Nella fontana che non sgorga acqua non ci sono più i pesci ed il nespolo ha perso le sue fronde. Egea si fa coraggio, al di là delle imposte sgangherate si sentono dei rumori. Nonostante l’aspetto fatiscente, lì dentro ci abita ancora qualcuno. L’ex bambina con la valigia si decide a bussare. “Mi ha aperto una donna slava, le ho chiesto se poteva farmi entrare, anche solo per cinque minuti”. La risposta è un inappellabile “via via”. Egea, che nel corso della nostra conversazione non ha mai ceduto all’emozione, adesso ha la voce rotta. Decide di lasciarci con una preghiera.

Lei che la guerra e l’esodo li ha vissuti sulla pelle, ha un peso sul cuore che si rinnova ogni giorno dallo scorso 24 febbraio, dall’inizio della invasione russa in Ucraina: “Prego per la pace e perché almeno a quei bambini non sia negato il diritto di fare ritorno alle proprie case”.

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