La resa di Donald al pressing realista. Decisiva l'asta choc sui titoli di Stato

Prezzi in calo e tassi alle stelle: è l'ultimo colpo. Le due anime alla Casa Bianca

La resa di Donald al pressing realista. Decisiva l'asta choc sui titoli di Stato
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Dal «Mantenete la calma!!!» con cui poche ore prima aveva esortato i suoi follower su Truth ad affrontare la tempesta in corso sui mercati globali, al passo indietro annunciato sempre via social. Nelle poche ore trascorse tra un post e l'altro di Donald Trump, c'è tutta la battaglia combattuta all'interno dell'Amministrazione americana, tra i massimalisti della Guerra dei dazi e i realisti, preoccupati delle ricadute economiche e politiche di una guerra commerciale dagli esiti sempre più incerti.

I rischi di una recessione sono «probabili», aveva spiegato in mattinata a Fox Business il ceo di JPMorgan Chase, Jamie Dimon. Un altro segnale di sfiducia, al netto dell'andamento di Wall Street, la diffidenza dei mercati verso i titoli del Tesoro Usa: prezzi in calo e tassi a 10 anni al 4,39%. Da un lato, quindi, i duri e puri come Peter Navarro, il consigliere commerciale del presidente, l'architetto del piano annunciato il 2 aprile, che escludeva qualsiasi negoziato. Con lui, il segretario al Commercio Howard Lutnick, miliardario di Wall Street folgorato sulla via dei dazi di Trump. Dall'altro, Elon Musk, che negli ultimi giorni si era mosso personalmente per far cambiare rotta al tycoon e si era scontrato pubblicamente con Navarro: «È un cretino», lo aveva liquidato. E il segretario al Tesoro Scott Bessent, che aveva convinto Trump a cambiare il suo «messaggio» sui dazi, concentrandosi sull'«obiettivo finale»: il negoziato con i partner commerciali degli Usa.

È stato proprio Bessent a presentarsi ai cronisti in un vialetto della Casa Bianca, poco dopo che il presidente aveva pubblicato il post col quale annunciava per gli «oltre 75 Paesi» che avevano contattato Washington dicendosi pronti a trattare, «una pausa di 90 giorni e una tariffa reciproca sostanzialmente ridotta del 10% durante questo periodo». La pausa ai dazi decisa da Trump indica che il presidente vuole concludere accordi «su misura» con i vari Paesi che intendono abbassare le loro barriere doganali nei confronti degli Usa, spiegava Bessent.

Esclusa però la Cina, che al contrario degli altri Paesi e blocchi commerciali si era lanciata in un braccio di ferro con Trump, alzando all'84% le sue barriere commerciali all'import Usa. Per Washington, un'escalation intollerabile.

Per il made in China, ha annunciato Trump, dazi al 125% «con effetto immediato». Una mossa che consente al tycoon di mantenere il punto nei confronti del principale rivale commerciale (e non solo) degli Stati Uniti e di non perdere del tutto la faccia agli occhi del suo elettorato. Anche se, vista la dipendenza dei consumatori Usa dai prodotti made in China, dagli Iphone alla carta igienica, il conto rischia di essere salato, con probabili effetti inflattivi. Il contrario di quanto promesso nella campagna elettorale.

«So quello che faccio», aveva assicurato Trump ai deputati repubblicani riuniti martedì sera a Washington per una cena di gala. «C'è la fila di Paesi che mi leccano il culo per fare accordi», la sparata inelegante, che però andava nella direzione voluta da Bessent. Anche se, nessuno immaginava in maniera così rapida.

«Non avete letto L'arte della trattativa, il bestseller anni '90 del tycoon, ha detto la portavoce della Casa Bianca, Karoline Leavitt, a chi chiedeva se quello del presidente fosse un dietrofront o una precisa strategia. Per ora, siamo al cessate il fuoco.

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