Per un pomeriggio Roberto D’Agostino mette da parte le sue sortite tra i soliti mostri della politica e dell’economia italiana, abbandona al suo destino l’onomastica beffarda della sua personale commedia dell’arte - il Mago Dalemix, Rigor Montis, la Fornarina Piagnens, Giorgio Banalitano, Caltariccone, Montezuma, Opus Lei, il Celeste Formigoni- e sale in cattedra per una vera lezione di giornalismo. Lo fa nel covo dei «tipini fini » di Farefuturo che nel frattempo si sono emancipati dal presidente della Camera, «Gianmenefrego », e camminano sulle loro gambe sotto la guida di Adolfo Urso.
È stato invitato a raccontarsi nel corso di «Giornalismo e comunicazione politica al tempo dei nuovi media ». Settore nel quale è difficile non individuare in D’Agostino una sorta di guru, o di «paraguru » come direbbe lui, visto che, partito senza un editore, con Dagospia è entrato nei computer di tutta Italia, ha seminato scoop e chiamato a sé centinaia di migliaia di contatti. Occhiali da sole con lente rossa che non si toglie mai, coppola, giacca scura con rose rosse che richiamano il tatuaggio che ha sulle braccia (rose, appunto), capelli lunghi raccolti, anfibio da cui sbuca il calzino rosso, catena con cornetti, D’Agostino si trova a sua agio in cattedra. L’inizio della sua lectio magistralis è sulla genesi del pettegolezzo.
«Il gossip è antichissimo: la Divina Commedia è una Novella 2000 divisa in tre settori. Anche la Ricerca del tempo perduto nasce dal gossip. Proust scroccava cene nei salotti parigini e metteva su carta quel che vedeva, lo stesso ha fatto Arbasino con Fratelli d’Italia ». Dalla proiezione storica all’idea che ha cambiato la sua vita. «Avevo una rubrica su l’Espresso ma venne eliminata perché presi in giro Gianni Agnelli. A quel punto mi dissi: “Non posso essere un autarchico invece di frignare?”».
Il taglio mondano-gossiparo venne presto arricchito da una vera immersione nella grande vasca sotterranea della finanza. «Prima nessuno parlava di economia ed erano quelli che ce la mettevano in quel posto. Sono i banchieri la vera casta, non quei poveracci dei politici. Attraverso le mail, compresi che la gente era più interessata a Geronzi e Maranghi piuttosto che alle starlette».E poi l’altro colpaccio sul fronte della «fotografia » del costume: la rubrica Cafonal .
«Cafonal fa il verso a Capital degli anni ’80. Oggi l’io prende il posto del noi e la tecnologia, attraverso i social network , lo permette. La dialettica mediatica ora è pubblicitaria e i politici hanno capito che la comunicazione è la vera politica. Grillo dirà pure un sacco di stronzate ma la sua forza è la comunicazione». D’Agostino dipinge Dagospia come una sorta di refugium peccatorum , uno sfogatoio dell’indicibile, o meglio dell’impubblicabile. «Quando i manager vogliono far saltare operazioni girano le notizie a me. Le notizie arrivano dai centri di potere. Per averle su un personaggio bisogna andare dal suo nemico: prima regola. E poi bisogna mettere fuorilegge le prime mogli lasciate per quelle più giovani, creano un sacco di casini». Da esperto di comunicazione, il giudizio sullo stato dei media è affilato. «Si prendono troppo sul serio ma hanno la proprietà più volgare che c’è. Le logiche editoriali sono banali. Branko, quello degli oroscopi, vale 20mila copie. Altro che Galli Della Loggia». Il suo rapporto con le querele è complicato. Di diffide legali ne ha ricevute una carrettata. Il più permaloso? Luca Cordero di Montezemolo. «Invece di smentire, mi porta in tribunale accusandomi di diffamazione plurisettimanale ».L’ultima battuta è un distillato di autoironia sul suo percorso di vita, chiosa perfetta di uno abituato a fare surf nella miseria dell’attualità e uscirne asciutto, quasi purificandola con il suo sarcasmo. «Mi sento un fallito: volevo fare il rocker e invece mi tocca fare Dagospia .Volevo essere l’Uomo Ragno ma ho finito per fare l’Uomo Rogna».
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