Lidia Macchi, dopo 34 anni senza un colpevole: "Potevano arrivare al killer"

Lidia Macchi venne uccisa il 5 gennaio del 1987 con 29 coltellate. Dopo 34 anni il suo presunto assassino è stato assolto dalla Corte di Cassazione. E il caso è rimasto senza un colpevole

Lidia Macchi, dopo 34 anni senza un colpevole: "Potevano arrivare al killer"

"Una ragazza intelligente, solare, sportiva, con un credo religioso profondo". Lidia Macchi era tutto questo. Quella sera di inizio gennaio del 1987 la studentessa di Giurisprudenza, impegnata nel movimento scout e parte del gruppo di Comunione e Liberazione, si era recata all'ospedale di Cittiglio (Varese) per far visita a una sua amica. Ma, una volta uscita dalla stanza, intorno alle 20.10, scomparve. Due giorni dopo, il 7 gennaio, Lidia venne ritrovata senza vita in località Sass Pinin, nella zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio. Lidia Macchi aveva solo 21 anni. Il suo è il nome di un'altra vittima senza giustizia: un colpevole per la sua morte non è mai stato trovato. Pochi giorni fa la Cassazione ha assolto Stefano Binda, l'ultimo indagato per l'omicidio. E il delitto della studentessa resta ancora oggi un mistero.

I fatti

Era il 5 gennaio 1987. Il giorno prima Lidia era tornata da un itinerario spirituale ad Assisi durato 4 giorni: quello era il primo anno in cui trascorreva le vacanze di Natale separata dalla famiglia, che era in montagna. Quel giorno Lidia avrebbe voluto andare all'ospedale di Cittiglio per far visita alla sua amica Paola, ma non aveva la macchina. Qualcuno sostenne di averla avvistata quel pomeriggio alla stazione di Casbeno, forse per controllare gli orari dei treni, senza però trovare una soluzione adatta alle sue esigenze. La sera, poco prima delle 19, i genitori fecero ritorno a casa, anticipando il rientro di un giorno, e Lidia ne approfittò per chiedere la macchina, una Fiat Panda, per recarsi all'ospedale, promettendo che sarebbe tornata per cena intorno alle 20-20.30. Secondo quanto riferito successivamente dall'amica, Lidia arrivò all'ospedale e si intrattenne nella sua stanza per circa mezz'ora: intorno alle 20.10, la studentessa uscì dalla camera e scomparve nel nulla. Una testimone dirà di aver notato, affacciata a una finestra dell'ospedale, in attesa che il marito andasse a prenderla, un'auto bianca di grossa cilindrata avvicinarsi alla Fiat Panda. I genitori, non vedendola ritornare per cena iniziarono a cercarla. La madre telefonò ad amici e ospedali e il padre uscì con l'auto ma, rivelò a Blu Notte, "era lontanissima da me l'idea che potesse essere successo quello che è accaduto". Di Lidia non c'era traccia.

Così le forze dell'ordine iniziarono le ricerche, affiancati da pattuglie di amici, che si erano offerti di aiutare a setacciare la zona, nella speranza di ritrovare la ragazza. Fu uno di questi equipaggi di amici a fare la scoperta: alle 10.25 del 7 gennaio, Roberto, Maria Pia e Teresa avvistarono la Panda in una zona boschiva vicino alla ferrovia di Cittiglio, in località Sass Pinin. A fianco all'auto giaceva il corpo senza vita di Lidia, coperto da un cartone. La relazione dell'autopsia, depositata il 6 marzo 1987 rivelò la causa della morte: Lidia Macchi venne colpita da 29 coltellate e morì per "un'anemia acuta, unitamente ad un’asfissia acuta". L'esame autoptico rivelò anche che poco prima di morire la ragazza ebbe il suo primo rapporto sessuale. Il medico legale sostenne che Lidia non venne uccisa nel luogo in cui venne ritrovata, "considerando il limitato quantitativo di sangue rinvenuto all'interno della Panda e sul terreno circostante".

Successivamente quest'ultima considerazione relativa al luogo del delitto venne messa in dubbio dal consulente del procuratore generale, il dottor Franco Posa, e dal perito medico-legale del Gip, la dottoressa Cristina Cattaneo. Secondo la dottoressa, come riportato nella sentenza del 21 luglio 2018 (nell'ambito del processo a Stefano Binda), Lidia venne uccisa nel luogo in cui venne ritrovata: "Le tracce di sangue minime sulla Panda vengono spiegate dal perito con il fatto che i colpi più aggressivi sono stati sferrati all’esterno, mentre sull’automobile Lidia sarebbe stata attinta da sole due coltellate alla mano e al gluteo, compatibili con la macchia sul sedile e con la strisciata sulla portiera". Dello stesso avviso anche il dottor Franco Posa, che attribuì la scarsa quantità di sangue all'interno della vettura all'assorbimento da parte dei vestiti. "Ho quantificato la massa ematica interposta tra un indumento e l’altro considerando inoltre la dinamica e le condizioni come temperatura ambientale e altre caratteristiche, ottenendo una massa ematica trattenuta compatibile con il drammatico evento sul luogo del ritrovamento", ha dichiarato il dottor Posa al Giornale.it.

I primi sospetti

La prima ipotesi investigativa presa in considerazione dagli inquirenti fu quella del maniaco sessuale o del balordo. Lidia, ipotizzarono gli inquirenti, poteva aver dato un passaggio a qualcuno che l'aveva aggredita. Inoltre alcuni testimoni riferirono la presenza di una persona sospetta che lo stesso giorno in quel parcheggio si era aggrappata ai vetri dell'auto di un'altra ragazza. Ma questa pista non convinse la famiglia, che escluse la possibilità che Lidia avesse fatto salire in auto uno sconosciuto. I sospetti a quel punto vennero indirizzati verso don Antonio, a quei tempi responsabile spirituale del gruppo scout frequentato dalla studentessa 21enne: il 17 giugno il sacerdote venne convocato in pretura e trattenuto per un interrogatorio. Inizialmente il prete dichiarò che la sera del 5 gennaio 1987 si trovava in oratorio a preparare l'omelia per la messa dell'Epifania e di essere successivamente andato a letto. Due settimane dopo però, rettificò parzialmente la sua versione: "Dopo aver consultato l'agenda, si era avveduto che la sera del 5 gennaio non si trovava in oratorio, bensì era impegnato in una riunione religiosa in San Vittore insieme ad altri 3 sacerdoti ed un laico". In novembre fu la televisione a scuotere l'indagine: Enzo Tortora lanciò una sfida alla città di Varese, dopo che qualche giorno prima in Inghilterra era stato analizzato il Dna di un intero villaggio per risolvere un caso di stupro. Così il giudice istruttore autorizzò il prelievo del sangue di Don Antonio e di altre tre persone, ma l'esame non riuscì a stabilire nulla, né la colpevolezza né l'innocenza di nessuno di quegli uomini. Solo successivamente tutti i primi sospetti caddero.

La pista Piccolomo

Dopo anni di silenzio, nel 2013 la procura generale di Milano avocò a sé le indagini. I sospetti vennero indirizzati verso Giuseppe Piccolomo, un imbianchino 64enne già condannato all'ergastolo per il "delitto delle mani mozzate" e sotto processo anche per l'omicidio della moglie, avvenuto nel 2003. Le figlie dell'uomo avevano rilasciato alcune dichiarazioni a carico del padre. In particolare una delle figlie aveva dichiarato che Piccolomo "per minacciarla, le aveva detto che le avrebbe fatto fare la fine di Macchi Lidia e che era stato lui ad averla uccisa". "In realtà - ha spiegato al Giornale.it il criminologo Alberto Miatello - Piccolomo si era autoaccusato dell'omicidio di Lidia Macchi con le figlie: aveva mimato il gesto del coltello, vantandosi". Ma ci sono altri indizi a carico di Giuseppe Piccolomo, che potrebbero indicarlo come il killer di Lidia Macchi. Innanzitutto c'è l'identikit fatto da tre donne che, poco tempo prima dell'omicidio, ricordarono di essere state molestate da un uomo con i baffi molto somigliante a Piccolomo, che in un caso venne notato a bordo di un'auto bianca. L'uomo inoltre "abitava a Caravate, a soli 500 metri dal luogo in cui venne trovato il corpo". Altri tre elementi potrebbero essere interpretati come indizi contro Piccolomo. Miatello ricorda che il corpo di Lidia venne coperto con un cartone delle camerette dei bambini: "Piccolomo aveva un bambino e l'anno prima aveva comprato una cameretta, in più faceva l'imbianchino e le figlie confermarono che usava molti cartoni". Non solo. "L'assassino di Lidia l'aveva rivestita, perdendo tempo e rischiando di essere visto. Piccolomo in quel periodo era padre di un bambino e la moglie lavorava in ospedale facendo i turni di notte, così era lui che si occupava di mettere a letto i figli". Probabilmente il gesto di rivestire Lidia è stato "istintivo": "Non di rado chi commette un delitto si tradisce in questo modo e fa delle cose che è abituato a fare in certi orari".

Nel 2017, quando venne riesumato il corpo di Lidia Macchi, vennero trovate 4 formazioni pilifere in zona pubica e ne venne analizzato il Dna, senza che venne individuato quello di Piccolomo. "Ma quell'esame del 'combing' - ha precisato Miatello - è del tutto irrilevante, perché quelle 4 formazioni pilifere non sembrano affatto peli pubici, ma sono molto probabilmente un solo capello poi spezzatosi in 4 parti per l'azione dei batteri dopo 30 anni nella bara. Il capello potrebbe appartenere a una delle tante persone che ebbero contatto col cadavere della ragazza nel gennaio 1987: poliziotti, operatori dell'obitorio e operatori del servizio di onoranze funebre che rivestirono la salma". Le indagini a carico di Piccolomo durarono per diversi anni, durante i quali venne chiesto di esaminare il Dna sui reperti e di compararlo con quello dell'uomo. Ma gli esperti non trovarono alcuna corrispondenza: "Non vuol dire nulla - spiega Alberto Miatello - buona parte dei reperti erano spariti". Ma l'assenza del Dna e le rivelazioni di Patrizia Bianchi fecero scemare l'attenzione della pista Piccolomo, che si concentrò invece su Stefano Binda.

Il processo a Stefano Binda

La mattina del 12 gennaio 1987 Giorgio Macchi, il papà di Lidia, consegnò agli inquirenti una lettera anonima ricevuta dalla famiglia il giorno del funerale della ragazza, avvenuto il 10 gennaio. La lettera, scritta in stampatello su un foglio di quaderno e priva di firma, conteneva una poesia intitolata "In morte di un'amica", in cui sembravano essere contenuti riferimenti all'omicidio di Lidia. Per questo la lettera venne attribuita all'assassino. Fu proprio questa poesia che nel 2016, a distanza di 30 anni, portò all'arresto di Stefano Binda, ex compagno di liceo della vittima.

Dopo aver visto la lettera anonima pubblicata su La Prealpina infatti, un'amica di Binda, Patrizia Bianchi, aveva riconosciuto la grafia dell'uomo e aveva fornito agli inquirenti alcune cartoline scritte da Binda: la perizia calligrafica aveva evidenziato l'identità della grafia. Nella borsa di Lidia venne ritrovata all'epoca anche la poesia di Cesare Pavese Verrà la morte e avrà i tuoi occhi che, a detta della donna, rappresentava il "cavallo di battaglia di Stefano Binda all'epoca del liceo". Inoltre nel 1987 Binda guidava una macchina bianca simile a quella vista da una testimone nei pressi del polo ospedaliero. Il 24 aprile del 2018, Stefano Binda venne condannato all'ergastolo per l'omicidio di Lidia Macchi, aggravato dalla crudeltà. Secondo i giudici, il 5 gennaio del 1987 l'uomo "dopo aver incontrato Lidia Macchi nel parcheggio dell’Ospedale di Cittiglio ed essersi accompagnato all’amica nella sua auto, raggiungeva con lei la zona boscosa Sass Pinin ove, dopo la consumazione di un rapporto sessuale ottenuto con minaccia e costrizione, la aggrediva colpendola reiteratamente alla gola, al collo e al torace e, successivamente, mentre la ragazza tentava la fuga, alla coscia sinistra e alia zona dorsale, con una serie di coltellate (29) tali da cagionare alla vittima numerose lesioni che ne determinavano la morte per anemia e asfissia dopo penosa agonia". Secondo i consulenti, la lettera "In morte di un'amica" e i caratteri scritti sulla busta "appartengono alla stessa matrice redattiva e sono da giudicarsi opera appositiva di Stefano Binda". La lettera, "per il forte simbolismo che contiene" non venne considerata "una semplice poesia", ma contiene "certe descrizioni e il riferimento a particolari che soltanto l’assassino poteva conoscere". La Corte concluse che l'insieme degli indizi e delle prove indicava Stefano Binda come autore dell'omicidio della studentessa 21enne. "L'attività è durata 4 anni e mezzo - ricorda il criminologo Franco Posa - Ogni tipo di attività tecnica e scientifica è stata fatta con eccellenza. La procura generale ha usato in modo professionale e proficuo ogni metodo disponibile. Io ero stato chiamato per ricostruire la criminodinamica". Nel 2019 la sentenza d'appello ribaltò le carte. Il 24 luglio la Corte d'Assise d'Appello di Milano assolse Binda dall'accusa di omicidio e ne ordinò l'immediata scarcerazione. L'assoluzione è stata confermata pochi giorni da dalla Corte di Cassazione. "Tutte le attività sono state fatte con eccellente e grande competenza - ha dichiarato in merito il criminologo Posa - accetto e mi inchino di fronte alle sentenze degli altri giudici".

Così, a distanza di 34 anni, la morte di Lidia Macchi rimane ancora un mistero, pieno di punti oscuri e dubbi.

"Una delle cose più tristi di quel caso era che Piccolomo si sarebbe potuto rintracciare in tempi brevi - ha spiegato Miatello - c'era materiale più che sufficiente per arrivare in fretta a lui". Quello che è certo e che la storia di Lidia Macchi è la storia di un'altra vittima ancora senza giustizia.

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