Titoli di coda, finale di partita, game over, scegliete voi la definizione che più vi piace per commentare la fine del governo Barnier, il più effimero della storia repubblicana della Francia del dopoguerra, e con essa il sole nero di un'eclissi permanente che implacabile si proietta sulla testa del suo presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, il cui gradimento nei sondaggi è ormai ai minimi storici, non oltre la soglia di casa sua, verrebbe da dire.
È attribuita a Luigi XV la frase «après moi le deluge», dopo di me il diluvio, ma quello che sta avvenendo in Francia è un diluvio in corso d'opera, di cui francamente non si riesce a vedere la fine. Sotto il profilo parlamentare, la sciagurata scommessa presidenziale delle elezioni anticipate del giugno scorso ha portato all'ingovernabilità, con l'aggravante che quella carta risulta ora bruciata e non più giocabile sino alla prossima estate.
L'ipotesi di ripresentare il premier uscente e sfiduciato, è insensata; l'idea che dopo aver cercato di pescare un appoggio a destra, si proceda ora con un candidato più a sinistra, non ha margini di manovra per una qualsivoglia maggioranza; l'idea di affidarsi a un governo di tecnici è capziosa quanto bizantina, perché è lo stesso meccanismo politico, costruito intorno a una figura presidenziale eletta a suffragio universale, a renderla poco realistica. Senza contare che di supertecnici in grado di convincere la riottosità dei partiti in Francia non v'è traccia e oltretutto, sotto il profilo dell'opinione pubblica, se c'è una cosa che i francesi oggi come oggi odiano è proprio la tecnocrazia al potere, visto che è di un presidente tecnocrate come Macron che non vogliono più avere a che fare.
Comunque la si giri, si torna sempre lì, al regno repubblicano di Macronia, a una parabola che non sai più se definire drammatica o patetica. Si è sempre detto che fosse l'Italia il Paese del melodramma e insieme dell'opera buffa, ma l'Opéra comique che da mesi sta andando in scena a Parigi supera ogni aspettativa e batte ogni concorrenza d'oltralpe.
Il presidente Macron, va da sé, accusa i suoi avversari, Marine Le Pen innanzitutto, di cinismo e di irresponsabilità, ma il primo a essere stato cinicamente irresponsabile è stato lui, riuscito persino nell'impresa di dissolvere il partito da lui stesso formato e poi rifondato, in uno scintillio di sigle, In marcia, Rinascita, dietro le quali non c'era un progetto politico, ma soltanto un ego narcisisticamente smisurato.
Se ne andrà Macron, accetterà di farsi da parte prima della scadenza naturale del suo mandato, ovvero il 2027? Se dipenderà solo da lui, no. Non glielo consente il suo carattere, la sua convinzione di essere comunque e sempre il migliore, il disprezzo nutrito per i politici di professione da un lato, per qualsiasi figura che gli si potesse mettere in competizione dall'altro. In meno di dieci anni, tuttavia, il capitale di rinnovamento se n'è andato e ciò che resta è una sorta di meteora persa in un delirio cosmico a cui però non è estraneo un sentimento umano: è meglio tirare a campare che tirare le cuoia, e pazienza se è stato «un italien» a teorizzarlo
Se quindi non ci saranno dimissioni spontanee, nulla però autorizza a pensare che non possano essere «spintanee», che sia cioè la forza delle cose a provocarle, ovvero il loro aggravarsi e l'impossibilità a trovare una via d'uscita a un'impasse politica che porta alla paralisi istituzionale e non solo. La Francia è un grande Paese, ma è un grande Paese in crisi in cui presunzione e arroganza non bastano più a mascherarne la decadenza. Nazione repubblicana che coltiva però un'anima, una nostalgia e un sentimento monarchici, è sempre verso una figura dotata di un qualche carisma di sovranità che si è rivolta nei suoi momenti difficili. Fino a Jacques Chirac, questo ricorso ha più o meno funzionato, fra alti e bassi, delusioni e conferme. Da François Hollande in poi, il meccanismo sembra essersi inceppato, perché poi la decadenza francese ha anche a che fare con la decadenza della sua classe politica, la sua incapacità a essere in sintonia con il Paese e insieme di sprone per fare fronte alle sfide che si preannunciavano, economiche, sociali.
Macron è il portato finale di questo percorso, con il paradosso, al tempo della sua prima elezione, di aver scambiato la malattia con la cura. Era giovane, brillante, colto, di bell'aspetto, per molti versi vergine rispetto ad alchimie politico-ideologiche da tempo usurate. Era il nuovo che avanzava. Peccato però che fosse un nuovo fatto di niente.
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