La maggioranza a orologeria

C'è chi drammatizza e chi ironizza. L'incriminazione di Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, nel pieno della crisi di governo, è di sicuro un fatto di grande rilevanza, un'ingerenza della magistratura nella vita politica.

La maggioranza a orologeria

C'è chi drammatizza e chi ironizza. L'incriminazione di Lorenzo Cesa, segretario dell'Udc, nel pieno della crisi di governo, è di sicuro un fatto di grande rilevanza, un'ingerenza della magistratura nella vita politica. Ma oggi i principali giornali l'hanno già superata dopo 48 ore, perché le indagini sono condotte da un procuratore intoccabile: quel Nicola Gratteri da Catanzaro che, una conferenza stampa dopo l'altra, si è costruito la fama di inflessibile cacciatore di criminali in Calabria.

In rapporti privilegiati con il ministro Bonafede, in un circuito stretto di solidarietà con un gruppo importante di magistrati molto giustizialisti (Di Matteo, ancora in attività, e i due ex Davigo e Ingroia); addirittura candidato da Matteo Renzi a ministro della Giustizia nel suo primo governo (fu fermato dal presidente Napolitano che ricordò a Renzi l'inopportunità), sogna di diventare il Falcone di Calabria. Sogno impossibile, perché le inchieste di Falcone erano di assoluta precisione, quelle di Gratteri sono altrettanto mastodontiche, per quantità di indagati e imputati, ma finiscono spesso con un grande numero di assoluzioni, per mancanza di prove, soprattutto per gli imputati più noti. Da questa statistica nasce l'ironia di molti commenti, intimiditi ai toni del procuratore, ma scettici su buona parte delle sue inchieste. «Se Cesa è indagato in una maxinchiesta di Gratteri - si sente dire - può stare tranquillo». Prima o poi sarà prosciolto.

Intanto, Cesa si è dimesso e il quadro politico è ancora in subbuglio in vista di giovedì prossimo, quando il ministro della Giustizia presenterà al Parlamento la sua controversa riforma. Per Cesa si è parlato, ancora una volta, di giustizia a orologeria, ma si potrebbe parlare di maggioranza a orologeria: l'intromissione nella vita politica è esplicita e motivata dallo stesso Gratteri. In un'intervista sul Corriere della Sera, il procuratore ha detto: «Ho sentito in tv dallo stesso Cesa che non avrebbe aderito alla maggioranza, quindi non c'è problema».

Vale la pena di sottolineare quel «ho sentito in tv» per definire dichiarazioni rilasciate in Parlamento, ma il problema resta enorme: l'inchiesta sui rapporti Udc-imprenditori in Calabria è antica, del 2017, avrebbe potuto attendere una settimana. Cesa è stato aggiunto come segretario nazionale, i fatti che lo riguardano consistono in un pranzo nel 2017. Ma Gratteri rivendica di aver fatto una considerazione politica e non voleva rinunciare ad una piccola aggiunta di riflettori, anche se in questo tipo di atteggiamenti si potrebbe definire recidivo. L'inchiesta «Lande desolate» (chissà chi inventa questi nomi) incrimina, alla vigilia delle elezioni regionali del 2020 il presidente uscente della Regione Mario Oliverio (Pd) per peculato a vantaggio di una sua promozione politica. Anche in quel caso fa un ragionamento politico, perché in perfetta par condicio mette nell'inchiesta «Passepartout» anche il candidato del centrodestra Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza. Tutti e due si ritirano dalla politica, poi nel luglio Occhiuto viene prosciolto con la formula del non luogo a procedere: carriera finita, vita rovinata e il 4 gennaio scorso anche Oliverio viene assolto perché il fatto non sussiste nell'inchiesta «Lande desolate». Nessuno chiede scusa, nemmeno il Pd per non averlo difeso, tantomeno Gratteri che lo tiene ancora dentro la maxinchiesta «Rinascita-Scott»: un cumulo di inchieste e di proscioglimenti e assoluzioni, ma il nostro Procuratore Super (molto diverso da un Superprocuratore) continua a fare ciò che vuole, senza rendere conto mai, neppure al Consiglio superiore della magistratura che, quando è chiamato in causa, lo difende.

Così si apre un nuovo capitolo della Repubblica delle procure, con un protagonista sopra tutti: il Csm. Chiamato in causa dopo il caso Palamara e le dimissioni a catena che ne sono seguite, il Csm, in preda a tormenti e contorsioni interne, non è più in grado di prendere decisioni importanti, a rischio di essere travolto dalla guerra per bande che ormai lacera la magistratura. Per chi fosse davvero interessato ai particolari, martedì prossimo esce un libro-confessione fondamentale: Il Sistema, un lungo colloquio di Alessandro Sallusti con Luca Palamara. È una confessione, sostenuta da fatti e prove che l'ex magistrato, ora radiato, porta per dimostrare che il suo caso, ex membro del Csm ed ex segretario dell'Associazione Magistrati, non è quello di un soggetto isolato, ma il normale funzionamento di un Sistema inceppato: la giustizia.

In questo clima, il governo rischia un'altra crisi per sostenere una riforma Bonafede, che peggiora le cose. Ma l'aspetto più grave resta quello di un Csm che andava sciolto dopo lo scandalo e rieletto, invece resta testimone muto di scandali giudiziari estremi. Gratteri va per la sua strada e si sente talmente forte da condire la sua anomala intervista con toni minacciosi: «... se altri giudici scarcerano gli imputati nelle fasi successive, non ci posso far niente, ma credo che la storia spiegherà anche queste situazioni». Cos'è, una notizia di reato? Ci sono giudici complici della malavita, che giudicano le sue accuse? Dovrebbe riferirne al Csm, che legge muto. Oppure, più probabilmente Gratteri considera le sue accuse già sentenze emesse e complici oggettivi quelli che le mettono in dubbio.

Il Sistema, quello di Palamara e della giustizia italiana, ha superato di molto i principi del diritto e del giusto processo. Se perfino Luciano Violante in tv ha parlato di uomini delle istituzioni indagati, rovinati e poi prosciolti, citando Oliverio, Bassolino e Incalza, siamo oltre il limite.

Potrei aggiungere, a caso tra i più recenti, i nomi di Mannino, Contrada, Del Turco e molti altri, senza parlare delle persecuzioni, ancora in atto, inflitte a Silvio Berlusconi, ma preferisco restare a Cesa e ripetere che la giustizia a orologeria forse favorisce le carriere di alcuni procuratori, di sicuro mina le fondamenta costituzionali della Repubblica.

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