L'economia arranca, le stime di crescita riviste al ribasso viaggiano intorno allo zero, lo sviluppo non c'è e il ministro a ciò deputato, Luigi Di Maio, somiglia ad Alice nel paese delle meraviglie. Al ministero di via Veneto, in realtà, lo vedono poco, ma non c'è intervista o apparizione tv dove non faccia professione di credere fermamente nello sviluppo, nella necessità di meno tasse e meno burocrazia, perché «le imprese vanno aiutate», e pure noi. Mentre il ministro esterna, restano aperti 150 tavoli di crisi aziendale, a gennaio erano 138, la cassa integrazione, in un anno, si è impennata del 78 per cento, 280mila lavoratori rischiano di restare a casa. Il ministro avrà già pronto per loro un reddito di cittadinanza ma queste persone aspirano a procurarsi, con la dignità del lavoro, il pane per sé e per i propri figli. D'accordo, il momento è complicato, la congiuntura internazionale non aiuta, Di Maio poi ha i suoi grattacapi, il giovane non ha curriculum ma il fiuto politico non gli manca, e ha ben compreso che, più prima che poi, il suo secondo mandato andrà in scadenza e per lui si apriranno le porte del magico mondo del lavoro. Quel che colpisce però è la disinvolta sicumera con cui il ministro dello Sviluppo immaginario non perde l'occasione per lisciare il pelo agli imprenditori, per elogiarne il magnifico ruolo in una filippica, tanto appassionata da risultare quasi credibile, contro gli eccessi della burocrazia, il fisco opprimente, le inefficienze della giustizia. Di Maio ringhia contro chi ostacola la vita dei suoi adorati imprenditori, parla come se fosse all'opposizione, eppure da dodici-mesi-dodici in via Veneto ci sta lui. Da quelle parti si avverte la mancanza di Carlo Calenda che sui dossier ci stava, con competenza, Di Maio invece non siede ai tavoli ma invia il suo fidato Giorgio Sorial, grillino assurto agli onori della cronaca per aver definito «boia» il presidente emerito Giorgio Napolitano. È la politica del doppiopetto così cara al leader grillino che passa dai gilet gialli alla grisaglia dello statista, dalla richiesta di impeachment all'elogio sperticato del presidente Mattarella, come se tutto gli fosse consentito, anche invocare la ghigliottina per i Benetton e, un attimo dopo, intonare un'ode liberista. Non è un caso che, in occasione dell'ultima Assemblea generale, gli imprenditori di Confindustria, stanchi di essere menati per il naso, gli abbiano riservato una gelida accoglienza.
Tra costoro i costruttori dell'Ance che vorrebbero vedere il Paese sbloccato per davvero, e poi le migliaia di imprenditori che, d'intesa con i sindacati, stanno siglando accordi aziendali tesi a bypassare gli assurdi vincoli del decreto Dignità. Di Maio, ovviamente, lo brandisce come un trofeo. E il doppiopetto, certe volte, calza stretto.
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