Se n’è andato a 108 anni, Boris Pahor, scrittore, intellettuale e prima di ogni cosa sloveno. Triestino di nazionalità slovena. Se n’è andato senza lasciare conti in sospeso con la storia. Il cerchio, per lui, in un certo senso si era già chiuso due anni fa, con la restituzione della Narodni dom di Trieste alla comunità slovena. Il 13 luglio del 2020. Esattamente a cento anni di distanza da quando la vide bruciare. "È il traguardo di resistenza che ora mi pongo", diceva a Il Corriere qualche mese prima.
Narodni dom in sloveno significa Casa del popolo. Sede delle organizzazioni slovene e simbolo dell’identità slovena nella Trieste asburgica. La storiografia ufficiale ne attribuisce il rogo alle camicie nere come risposta alle violenze anti-italiane che si erano registrate a Spalato. Pahor all’epoca aveva appena sette anni e lungo il confine orientale infuriavano le tensioni nazionaliste. Quell’esperienza lo segnò profondamente, instillando in lui il seme della resistenza. Si ritrovò in Libia a combattere una guerra non sua e al ritorno si avvicinò ad alcuni esponenti di spicco del Tigr, organizzazione nazionalista slava accusata di diffusione di stampa clandestina, spionaggio e terrorismo.
Pahor la sua lotta la portò avanti con la penna e con le idee. La clandestinità gli costò la deportazione in diversi lager nazisti: Natzweiler-Struhof, Dachau, Bergen-Belsen. Sopravvissuto e testimone, è stato accostato a Primo Levi per aver descritto quegli orrori nel suo Necropoli. "Noi sloveni del litorale – scrive Pahor – affermavamo ostinatamente di essere jugoslavi. Il cuore e la mente si ribellavano al pensiero di essere eliminati come appartenenti a una nazione che, dalla fine della Prima guerra mondiale, aveva sempre tentato di assimilare gli sloveni e i croati". Il tema dell’identità negata è centrale nella sua produzione letteraria: una trentina di opere tradotte in decine di lingue.
Pahor non smise mai di militare né di coltivare quel senso di ingiustizia che solo la restituzione del Narodni dom ha potuto lenire. Nel 2008 dichiarò pubblicamente che non avrebbe accettato alcuna onorificenza "da un presidente della Repubblica che ricorda soltanto le barbarie commesse dagli sloveni alla fine della Seconda guerra mondiale, ma non cita le precedenti atrocità dell’Italia fascista contro di noi". Due anni più tardi, in un’intervista concessa al quotidiano capodistriano Primorske Novice, definì l’elezione a sindaco di Pirano del medico Peter Bossman, originario del Ghana, "un brutto segno per il Paese". "Guardate l’Italia – aveva poi dichiarato – che vuole nuovamente italianizzare l’Istria. E ce la farà, perché gli sloveni hanno poca coscienza nazionale".
L’onorificenza che mai avrebbe accettato alla fine è arrivata. Nel 2020. Nel giorno in cui la Casa del popolo è tornata alla comunità slovena ed i due presidenti della Repubblica, Sergio Mattarella e l’omologo sloveno Borut Pahor, hanno reso omaggio agli infoibati di Basovizza e ai quattro fucilati del Tigr. L’ha dedicata "a tutti i morti che ho conosciuto nel campo di concentramento e alle vittime del nazifascismo e della dittatura comunista". Salvo poi "rimproverare" lo stesso Mattarella per aver "fatto un attacco all’armata jugoslava che ha gettato nelle foibe non so quanti italiani. È tutta una balla questa, non era vero niente". Dichiarazioni che fecero scalpore, soprattutto in una giornata di riconciliazione come quella.
E allora Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli Istriani, non perse tempo a chiedere che gli venisse
immediatamente revocato quel riconoscimento: "Il vilipendio di un intero popolo costretto alla diaspora per scampare al genocidio non può essere premiato con gli onori dell’Italia". Queste però sono cose da vivi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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