(Udine) Il silenzio nel reparto Covid è rotto soltanto dal rumore delle tute ad ogni movimento e dalle voci di medici e infermieri. Avvolti in dispositivi bianchi di protezione, guanti e mascherine sono sagome indistinguibili che solo quando parlano possono riconoscersi tra loro. Da dietro le visiere spuntano occhi stanchi ma mai arrendevoli, sguardi che raccontano la dura battaglia contro il virus e che giorno dopo giorno infondono coraggio ai pazienti smarriti. Dopo mesi di lotta al coronavirus, i posti letto continuano ad essere sempre occupati e non fanno intravedere la fine di questa emergenza. Medici e infermieri sono provati. Loro che a marzo venivano chiamati eroi, oggi si sentono lasciati soli. Eppure sono sempre lì, in prima linea nella lotta contro il Covid (Guarda il video).
All'ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine la prima linea è il Padiglione 9. Al secondo piano della palazzina bianca e blu c'è la clinica di Malattie Infettive che solo un anno fa ospitava 14 posti letto. Ma quando il Covid ha iniziato a diffondersi tutto è cambiato. "A febbraio abbiamo occupato il primo piano passando così a 43 posti letto - spiega a ilGiornale.it il direttore del reparto, Carlo Tascini -. Poi, con la seconda ondata dell'infezione, siamo stati costretti ad aprire anche il piano zero che ospitava l'ambulatorio. Ora abbiamo 59 posti letto, tutti occupati". L'intera palazzina è stata così trasformata in reparto Covid, ma sembra non bastare. I contagi aumentano giorno dopo giorno e la pressione sulle strutture del territorio è forte. "Per ora il sistema sta rispondendo, ma siamo comunque in affanno. Tutti i settori Covid sono sempre più pieni. Se i numeri continueranno a crescere così, gli ospedali saranno completamente occupati dai pazienti con il coronavirus - aggiunge Tascini -. Inoltre possono esserci diverse complicazioni che allungano i tempi di ricovero. Questo significa che liberare i letti è difficile e quindi ce ne vogliono sempre di più. Sono molto preoccupato".
Nel reparto Covid
Prima ci si disinfetta le mani, poi si indossano doppi calzari, tuta, cuffia, due paia di guanti in lattice mascherina e visiera. Oltre la porta a vetri, la zona Covid. A metà del lungo corridoio con le camere, una fila di schermi permette di tenere sotto controllo anche dall'esterno i parametri vitali dei pazienti più critici. "Al secondo piano ci sono i malati più intensivi con gravi problemi di respirazione - spiega Tascini guidandoci in reparto -. In tutte queste stanze a pressione negativa l'aria viene aspirata e portata fuori e quindi è possibile fare la ventilazione non invasiva con caschi e maschere in tutta sicurezza per il personale sanitario. Dopo la prima ondata abbiamo imparato ad aspettare prima di intubare i pazienti che ora vengono sottoposti a ventilazione fuori dalla Terapia Intensiva. Questo ci permette, per il momento, di tenere l'ospedale aperto per gli interventi e le visite di chi ha altre patologie, a differenza di quanto successo in primavera quando tutta la struttura è stata invasa dal Covid".
Dopo aver contenuto la prima fase dell'epidemia, il Friuli Venezia Giulia si trova ora ad affrontare una seconda importante ondata che ha gettato la regione in zona arancione. Il numero dei malati cresce giorno dopo giorno e i reparti si riempiono sempre di più. "Non ci aspettavamo una seconda ondata di questa entità, ma siamo di sicuro più preparati da un punto di vista psicologico e scientifico", spiega fiduciosa la dottoressa Emanuela Sozio. "Negli ultimi mesi abbiamo vissuto con un po' di ansia - le fa eco la giovane specializzanda Valentina Gerussi -. Anche se eravamo pronti è stato tutto molto impattante". E così i pazienti sono tornati ad occupare i posti letto e ora in reparto si corre. Medici e infermieri in enormi tute bianche si spostano da una stanza all'altra per tenere monitorati tutti i pazienti e regolare in modo costante i flussi d'ossigeno. "Lavorare con la tuta è molto stressante, sia da un punto di vista fisico che psicologico. Non possiamo bere, mangiare, andare in bagno e, soprattutto, fa molto caldo", ci racconta Fabio Colle, infermiere che da mesi lotta contro il virus in reparto. Difficili condizioni di lavoro e turni massacranti che però non scoraggiano il personale sanitario. La stanchezza, dopo mesi vissuti in prima linea, si sente ma la voglia di combattere il nemico invisibile è ancora più forte. "Dopo questa esperienza devastante, per noi come per tutta la società, speriamo di poter dire di aver imparato qualcosa. È un momento epocale che sta cambiando tutto, in ospedale e fuori", osserva la dottoressa Sozio.
Immobili nei loro letti, attaccati ai respiratori, gli occhi smarriti che cercano quelli dei medici dietro alla visiera. I ricoverati nei reparti Covid non sono solo anziani. "La maggior parte dei pazienti sono stati contagiati in famiglia dove si abbassa la guardia. Bisogna stare molto attenti, i numeri stanno aumentando anche tra i più giovani", spiega Tascini. Quando si entra in reparto, si perde ogni contatto con l'esterno. Nessuna visita: i familiari lasciano borse con effetti personali all'ingresso del padiglione e con i tablet degli infermieri i pazienti possono rivedere i loro parenti. Tra i malati più stabili, in pochi vogliono parlare. Il Covid affatica, toglie le forze, segna. "Quando sono stato ricoverato all'ospedale di San Daniele per un virus intestinale il mio tampone era negativo. In reparto deve esserci stato un positivo che mi ha trasmesso il Covid - racconta un paziente tenendo stretto a sé il respiratore -. Per dieci giorni non ho avuto niente, poi la febbre. Così sono stato ricoverato qui a Udine. A parte la tosse, mi sento sempre affaticato. Ci vuole tempo, bisogna avere pazienza, volontà e forza di andare avanti".
"Ci siamo trovati davanti ad una patologia nuova che ci ha messo a dura prova. Ci siamo tutti rimboccati le maniche per trovare delle soluzioni", spiega l'infettivologo Tascini che con rammarico aggiunge: "Nel corso della prima ondata c'è stata grande solidarietà nei nostri confronti. Ora non è più così. In primavera eravamo degli eroi, adesso siamo quelli che ricordano che c'è un problema. Ma non è che l'epidemia l'abbiamo inventata noi medici. Noi abbiamo abbandonato tutti gli altri pazienti, non c'è un malato differente dal Covid in reparto. Capisco la stanchezza della gente, ma si pensi anche alla nostra". Eppure loro sono sempre in trincea con i loro turni infiniti e la difficoltà a staccarsi dalla realtà del reparto. "Non ci sono weekend o momenti liberi, è un continuo telefonare e ogni notte mi sveglio alle quattro - confessa Tascini -. Ora non esiste più niente se non il Covid".
In Terapia Intensiva
Padiglione 1, quarto piano. I 22 posti del reparto di Terapia Intensiva II sono tutti occupati. Nell'ultimo baluardo contro il Covid non c'è più spazio. "Dopo un'estate con un numero ridotto di pazienti, da metà ottobre c'è stato un incremento esponenziale dei casi gravi. Per far fronte a questo aumento, stiamo preparando un'altra Terapia Intensiva con dieci posti letto", spiega il primario Flavio Bassi. La breve tregua estiva è finita e la situazione è sempre più allarmante se si pensa che anche le rianimazioni di Trieste e Pordenone sono sature. "Siamo di fronte ad un'ondata più drammatica rispetto alla prima", continua Bassi spiegando che "la mortalità è cresciuta e questo significa che il virus ha probabilmente aumentato la sua aggressività". La curva sta ancora salendo e ad oggi in rianimazione sono ricoverati anche molti giovani "di 30, 40 e 50 anni fondamentalmente sani".
Un letto accanto all'altro, il soffio dell'ossigeno che passa nei respiratori e il rumore dei macchinari. I malati giacciono inermi circondati da monitor, aghi e tubi mentre medici e infermieri controllano senza sosta le loro funzioni vitali. Per i casi più gravi, c'è la pronazione. Sedati e intubati, i pazienti vengono girati a pancia in giù per diverse ore in modo da migliorare l'ossigenazione dei polmoni. Una manovra drammatica che può durare più giorni e che richiede lo sforzo di circa sei operatori.
Condizioni che mettono a dura prova tutto il personale sanitario e allarmano il primario Bassi: "Stiamo lavorando da mesi sui malati Covid, pazienti fragili, soli, che non possono comunicare. È una situazione impattante anche per medici e infermieri. Sono molto preoccupato perché il personale stesso potrebbe andare incontro al rischio di burnout e per questo stiamo cercando di realizzare un percorso di supporto psicologico. C'è molta stanchezza, i turni sono lunghi, la vestizione è complessa: tutto questo, moltiplicato per i mesi già trascorsi e per quelli che ci aspettano, va ad influire sulla tenuta oltre che psichica anche fisica del personale sanitario". "Entrare in una realtà Covid è impegnativo sia da un punto di vista fisico che morale. Siamo solo noi, alla fine, vicino ai pazienti e questo crea un grande stress emotivo. Inoltre c'è il timore di contrarre l'infezione e portarla ai propri familiari", spiega Cristiana Macor, responsabile infermieristica del dipartimento di Anestesia e Rianimazione. E intanto i numeri continuano a crescere senza dare tregua. Lo scenario critico che ci si aspettava per l'inverno si è fatto serio già da metà ottobre.
In poco tempo il Covid ha sorpreso e travolto di nuovo tutti. "Non dobbiamo abbassare la guardia e questo vuol dire mascherina e lavaggio frequente delle mani - conclude Bassi -: la diffusione del coronavirus dipende anche dai nostri atteggiamenti".- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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