Beppe Grillo vittima del grillismo. Viene quasi da ridere. Il fondatore e il suo braccio armato, cioè il comico e la Casaleggio Associati, sono incappati in una di quelle leggi indecifrabili, dai connotati misteriosi, inasprite dalla mente perversa di Alfonso Bonafede e compagni: il reato di traffico d'influenze. Siamo all'epilogo dell'apprendista stregone: Grillo che finisce nel mirino della magistratura, innescata dalla cultura giustizialista del suo Movimento. Oggi, giorno del 22esimo anniversario della morte di Bettino Craxi, che in vita fu uno dei bersagli preferiti del comico, si consuma una nemesi della Storia anche per la tesi accusatoria dell'inchiesta: il fondatore avrebbe favorito attraverso i suoi parlamentari gli interessi dell'armatore Vincenzo Onorato, suggerendo provvedimenti di legge ed emendamenti in cambio, secondo gli inquirenti, di un compenso. Di fatto uno dei meccanismi classici per cui la classe politica è stata messa alla sbarra nella Prima e nella Seconda Repubblica.
Roba da non credere. «L'Elevato» è stato inghiottito da quella palude che è al confine tra politica e società e che ha dato modo alla magistratura di aumentare la sua influenza. È la conferma che il tritacarne non finirà mai. Che una certa mentalità, che punta a «criminalizzare la politica» in tutte le sue forme, ormai è entrata nella cultura, o «subcultura», del Paese. Al punto che ne pagano il fio anche i «puri» di turno, quelli che hanno avuto la bella idea di creare un partito sul giustizialismo.
Questo magma culturale è il richiamo della foresta da trent'anni per certi mondi. Quelli che gioivano del linciaggio di Bettino Craxi e che ora, un po' attempati, resuscitano l'anti-berlusconismo in tutte le sue forme, anche le peggiori, per bloccare la corsa del Cavaliere verso il Quirinale. Ma sono gli stessi che si sono scagliati contro Renzi o contro Salvini. Mondi che non hanno più seguito (le manifestazioni anacronistiche del Popolo Viola vanno deserte), ma che continuano ad avere peso nei media e, soprattutto, nel meccanismo mediatico-giudiziario che da decenni punta a condizionare il Paese.
E, in tutto ciò, la politica continua ad essere inerme. L'annus horribilis della giustizia in cui l'ex magistrato Palamara ha svelato il malcostume delle toghe, in cui un mostro sacro come Davigo è diventato un imputato come pure il Procuratore generale della Cassazione, in cui sul caso Eni sono venuti alla luce i magheggi dei pubblici ministeri, si è chiuso con l'attuale capo dello Stato che non ha neppure sfiorato l'argomento nel suo ultimo discorso. Né tantomeno questo tema, quello di riequilibrare i poteri nella nostra Repubblica, appare nel dibattito tra i partiti che cercano di individuare l'identikit del nuovo inquilino del Quirinale.
Anzi, qualche pseudo-garantista in Parlamento (vedi Renzi) ignora del tutto il profilo, appunto, garantista nel tratteggiare la figura del nuovo presidente e punta ad eleggere in quel ruolo eminentemente politico «un tecnico». Un'altra resa. Ecco perché sapere che qualche giustizialista prestato al Palazzo sia ora perseguitato dagli stessi meccanismi infernali che ha messo in piedi è una magra consolazione.Solo un segno dei tempi.
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