Per Carlo De Benedetti la fine dell’incubo arriva nella manciata di secondi che bastano al presidente della Corte d’appello di Torino per leggere il dispositivo della sentenza, e al suo avvocato Tomaso Pisapia per telefonargli la buona novella.
Il processo per i morti di amianto all’Olivetti di Ivrea si sgretola davanti ai giudici di secondo grado, il castello di accuse che nel 2016 avevano portato alla condanna dell’Ingegnere a cinque anni di carcere per omicidio colposo plurimo viene smontato nella camera di consiglio della Corte d’appello. Assolto, e così pure suo fratello Franco, con lui per lunghi anni alla testa dell’azienda di Ivrea. I sette morti vi furono, e questo i giudici non lo smentiscono. Ma per la sentenza "il fatto non sussiste". Evidentemente i giudici non si sono convinti che ad ammazzarli fu l’amianto che in Olivetti era presente quasi ovunque.
É una sentenza che ribalta completamente, per tutti gli imputati, l’impianto del giudizio in primo grado, celebrato davanti al tribunale di Ivrea, e che aveva visto scendere in campo come parti civili il Comune, il sindacato, e soprattutto il lungo elenco di vittime e di loro parenti. Oltre ai sette morti, nel capo d’accusa figuravano un folto gruppo di operai e impiegati ammalati ma ancora in vita, impegnati nella lotta senza speranze contro il mesotelioma pleurico. Uno di questi, Pierangelo Bovio Ferrassa, è morto durante il processo d’appello, e il suo nome è così andato ad aggiungersi alla serie di morti d’amianto dell’Olivetti. Ma quei morti restano senza colpevoli: almeno per ora, perché la Procura non si ferma, e chiederà alla Cassazione di annullare le assoluzioni e ordinare un nuovo processo.
Dalle Fs, alla Breda, all’Alfa Romeo, alla Pirelli: le storie dei processi per amianto celebrati in questi anni in tanti tribunali italiani raccontano molte assoluzioni e poche condanne. Accertato, quasi in tutti i casi, il legame diretto tra la presenza di amianto e il mesotelioma pleurico, le sentenza di assoluzione si sono basate in genere sulla impossibilità per i manager di conoscere gli effetti devastanti della sostanza, e - più spesso - per i medici legali di collocare precisamente nel tempo l’insorgere della malattia. Così non si è potuto, nel turnover spesso intenso dei dirigenti, individuare tra loro i responsabili diretti delle morti.
Nel caso dell’Olivetti, il giudice di primo grado aveva ritenuto che entrambi gli ostacoli fossero superati dai risultati delle indagini. Che i De Benedetti sapessero dell’amianto, lo dimostrava secondo il giudice il dossier che l’Olivetti aveva commissionato al Politecnico di Torino, e che aveva rilevato la presenza di fibre inquinanti in percentuale decine di volte superiori alla soglia di rischio. E il lungo regno dell’Ingegnere e di suo fratello in Olivetti (rispettivamente, diciotto e undici anni) li inchiodava secondo la sentenza di primo grado alle loro responsabilità. Nell’aula del processo di Ivrea erano risuonate nel gelo le risposte di Bovio Ferrassa, l’operaio morto nei mesi scorsi. C’erano cappe di aspirazione? «No» Avevate maschere? «No» Vi hanno mai parlato di amianto? «No».
Si dovranno attendere le motivazioni per conoscere quale tassello decisivo, nel castello della sentenza di primo grado, non abbia convinto la Corte d’appello.
Nel frattempo, da una parte si registra l’amarezza delle vittime, dall’altro la legittima soddisfazione di De Benedetti e degli altri imputati tra cui Corrado Passera, cui in primo grado era stato inflitto un anno di carcere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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