I due dissidenti Andrej Sacharov ed Aleksandr Solzenicyn non avrebbero potuto essere più diversi tra loro. Eppure entrambi, alla fine del comunismo, chiesero la stessa cosa: una sorta di processo di Norimberga che mettesse al riparo la nuova Russia da un passato autoritario e illiberale. «Abbiamo ricevuto in eredità dallo stalinismo una struttura costituzionale nazionale che porta in sé il marchio del potere imperiale», disse Sacharov in un discorso di fronte al primo Congresso dei deputati liberamente eletto. Le vittime predestinate sono le piccole nazioni vicine, continuò il dissidente, «ma anche i grandi popoli non sono meno vittime, sulle loro spalle gravano le conseguenze dell'avventurismo e del dogmatismo in politica estera e interna».
Le speranze dei due Premi Nobel non si sono realizzate. La Russia non ha fatto i conti con il passato e a Mosca il bastone del comando è ancora nelle mani degli uomini dei servizi di sicurezza dell'ex regime, vecchi cani da guardia dello Stato dei Soviet. Così le parole di Sacharov si sono trasformate in una sorta di triste profezia: oggi il dogmatismo in politica interna e l'avventurismo in quella estera hanno precipitato la seconda potenza nucleare sull'orlo della guerra civile.
Nell'ottica della pura conservazione del potere l'abilità di Vladimir Putin è stata per anni quella di giostrare con maestrìa le forze dei numerosi e contrapposti gruppi di interesse: dagli oligarchi alle tante polizie segrete. Sotto la sua guida il Cremlino è diventato un crocevia in cui le partite tra vassalli e valvassori si risolvevano usando due armi: i soldi, frutto delle risorse naturali di un Paese ricco in materie prime, e la forza bruta.
Il potere, però, è come gli scacchi: sbagliare una mossa può rivelarsi fatale. E la mossa sbagliata è stata quella ucraina. Il disastroso equivoco in cui Putin è caduto, quello di ritenere che l'Ucraina avrebbe subito ceduto, e anzi di ritenere che l'Ucraina nemmeno esistesse, ha avuto due conseguenze immediate: le risorse finanziarie si sono fatte scarse, e la violenza scatenata per la guerra contro Kiev è diventata incontrollabile.
Lo zar si è scoperto all'improvviso più fragile di quanto forse lui stesso pensasse e il suo discorso di ieri appare una sostanziale dichiarazione di impotenza. Il richiamo alla «vittoria rubata» del 1917 è un tentativo di richiamare il popolo all'unità e alla mobilitazione. Ma è anche il contrario di quanto Vladimir Vladimirovich ha fatto per anni. Le sue vittorie elettorali sono state conquistate sulla base di un patto implicito con i russi: vi do sicurezza e un po' di benessere materiale, ma a condizione che non vi occupiate di politica.
Ora, però, il patto non funziona più. E nessuno è ancora in grado di dire come reagiranno i russi: unendosi intorno allo zar o facendo prevalere la passiva (fino ad ora) insofferenza per una guerra che nel Paese in pochi sentono davvero.
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