Se si prendessero sul serio le polemiche che a cadenza quotidiana dividono la maggioranza extra-large di Mario Draghi, saremmo indotti a prevedere una crisi di governo ogni 15 giorni o a registrare un'impasse totale. Poi, sia pure faticosamente, l'azione dell'esecutivo va avanti sulle gambe dell'autorevolezza del Premier, della sua popolarità (ad esempio, quella tanto celebrata di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, sondaggi alla mano, è sempre stata dai 10 ai 15 punti sotto quella di oggi dell'ex Governatore della Bce), del rapporto con l'Europa e della paura del voto. Ma cosa avverrà quando Draghi non sarà più a Palazzo Chigi?
La questione va posta per tempo perché i partiti potrebbero essere tentati di spedirlo al Quirinale per avere più voce in capitolo (in fondo la massima «promoveatur ut amoveatur», sia promosso affinché sia rimosso, è stata inventata a Roma); o, ancora, è difficile immaginare che l'ex Governatore possa restare in sella dopo il 2023, perché l'alleanza che vincerà le prossime elezioni rivendicherà quel ruolo e, anche nel caso decidesse di mantenerlo nella stanza dei bottoni per calcolo politico, Draghi sarebbe sicuramente meno libero.
La verità è che il Paese nelle attuali condizioni, è impossibile da governare: lo testimoniano decenni di Storia repubblicana, come pure le confessioni d'impotenza a cui si sono lasciati andare tutti i Premier dopo la permanenza a Palazzo Chigi. E la situazione nel tempo è peggiorata. Le nostre istituzioni salde nei principi, sono antiquate sul piano dei meccanismi istituzionali e non solo.
In più il sistema Italia è al collasso e rischia di deflagrare. La crisi verticale della magistratura che per una lunga fase si è addirittura sostituita alla politica lo dimostra: nell'immaginario collettivo il nostro sistema giudiziario ha toccato il fondo, ma il potere politico non ha la forza per riformarlo. Addirittura è complicato porre rimedio a quella sgrammaticatura del diritto che è la prescrizione secondo i dettami l'ex ministro grillino Alfonso Bonafede. Ecco perché quella riforma istituzionale più volte tentata e mai varata, è diventata una priorità. L'unica ciambella di salvataggio di un sistema morente. E l'idea che si ascolta nei tramestii della politica, di un'assemblea costituente che riformi la Carta, sul modello dell'organismo che subito dopo la guerra disegnò la Repubblica, ha un senso. Anzi, è auspicabile. Si tratterebbe di un organismo composto da un centinaio di membri eletti con il sistema proporzionale nelle prossime elezioni politiche insieme alle due Camere, quindi il più possibile rappresentativo del Paese.
Un'assemblea a cui il Senato e la Camera di oggi, con apposita legge, conferirebbero il mandato e il potere di riformare la Costituzione.
Il solito buco nell'acqua? È probabile, ma dopo la tragedia del Covid se si vuole davvero ricostruire il Paese (siamo più o meno nella situazione di 75 anni fa) c'è bisogno di istituzioni forti. E la classe politica, se vuole sopravvivere, deve dimostrare di non essere impotente ma di essere, con o senza Draghi, all'altezza della crisi.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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