Il paradosso dei democratici di centro

Quel che la sinistra sogna di inventare per ragioni di matematica elettorale viene poi espulso dalla coalizione quando si tratta di governare

Il paradosso dei democratici di centro

Puntuale come un tempo arrivava nelle sale il cinepanettone di Natale, arriva in questi giorni sui quotidiani un gioco di società che si ripropone a cadenza fissa nella politica italiana: la ricerca del centro perduto. A dare il via al dibattito, quest'anno, le dimissioni del direttore dell'Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini (nella foto), in polemica con il governo in carica.

L'uomo porta con sé un riconosciuto corredo genetico di «centro» per tradizione familiare e ciò lo ha fatto indicare da certa opposizione quale possibile catalizzatore intorno a cui costruire una nuova formazione moderata oggi mancante nella metà del campo che si oppone al centrodestra. Un ragionamento geometrico-matematico destinato al fallimento, quello di costruire un contenitore utile ad attrarre un certo tipo di consenso verso una coalizione che, impegnata nella competizione verso gli estremi, ha abbandonato appunto ogni presidio nel cosiddetto «centro».

Osservando il passato, e anche il presente, è facile infatti immaginare il fallimento di questa alchimia, utile al dibattito, inutile al consenso. Basta analizzare la storia recente per cogliere chiaramente l'incompatibilità di un «centro politico» con la struttura e la linea politica prevalente della coalizione di centrosinistra. Il suo principale partito, il Pd, nasce dall'unione di due anime, quella dei Democratici di Sinistra, eredi del vecchio Partito Comunista, e quella della Margherita, movimento ispirato ad antichi valori democristiani. Nel tempo appare evidente come la cultura del primo abbia totalmente annichilito quella del secondo.

Ciò è avvenuto nonostante la lettura della realtà suggerisse l'esatto opposto. Le uniche esperienze vincenti infatti sono state spazzate via dal prevalere del massimalismo sul riformismo. Si pensi alla caduta del governo Prodi, vittima dei partiti più estremi della sua Unione, e, poi, alla cancellazione dell'esperienza Renzi e con essa dell'ultima stagione di riformismo vincente della sinistra nel nostro Paese.

Da allora il Pd ed i suoi alleati hanno seguito alla lettera il paradosso teorizzato da Tony Blair per spiegare la sconfitta costante dei Labour britannici: quando il paese va a destra per vincere si pensa di doversi spostare più a sinistra. Un ragionamento opposto a ogni logica razionale, ancor prima che politica.

Eppure è il ragionamento perseguito anche in Italia: la scelta della signora Schlein come segretaria del Pd, incarnazione di una linea massimalista, la competizione con il Movimento grillino, una rincorsa che sposta quotidianamente la coalizione verso gli estremi, l'adozione della piattaforma della Cgil come programma politico, una scelta anche simbolicamente catartica rispetto alle stagioni riformiste del Jobs Act, che pure portarono il Partito Democratico oltre il 40 per cento.

Di fronte a questa storia e queste scelte, immaginare il «centro» come un luogo fisico, una casetta ben arredata con un inquilino educato, tale da attirare un po' di elettori verso una coalizione che in realtà rifiuta i loro valori è qualcosa di talmente artificiale da esistere solo nel dibattito giornalistico, non nella realtà.

La realtà ci dice invece che il fantomatico «centro» è un luogo politico incompatibile oggi con le pulsioni prevalenti nella coalizione di opposizione, anzi, rappresenta un ossimoro.

«Centro» infatti è, in politica, la parola che sintetizza l'unità di chi crede più nell'individuo che nello Stato, nel privato e nella sussidiarietà più che nel dirigismo e nello statalismo, nella libertà di educazione e di impresa, nella Alleanza Atlantica e nel mercato, nel merito e nell'ascensore sociale. Per dirla con Norberto Bobbio, il «centro» è il luogo di chi crede più nella libertà che nell'uguaglianza. Di chi interpreta la realtà senza promettere utopie.

Come è dunque possibile immaginare che questo insieme di valori si sposi con il sindacalismo radicale, le piazze anti israeliane, l'esaltazione di tasse e spesa pubblica, il pacifismo senza diritto, l'ambientalismo senza crescita è davvero difficile da immaginare.

Quel che la sinistra sogna di inventare per ragioni di matematica elettorale viene poi espulso dalla coalizione quando si tratta di governare. Dimostrazione ne sia la difficoltà di integrazione di movimenti che già oggi esistono, come Italia Viva e Azione, costole nate da quella stessa coalizione e oggi considerati dalla coalizione stessa poco compatibili. Un giudizio per altro ricambiato dagli elettori del fu terzo polo, indisponibili a seguire i propri leader quando questi volgono a sinistra il proprio sguardo.

Insomma, quand'anche un movimento centrista dovesse nascere nell'alveo della sinistra questo avrebbe le mere caratteristiche dello specchietto per le allodole, un compito simile ai piccoli partiti di fiancheggiamento costruiti in laboratorio nelle democrazie popolari dell'est prima del crollo del Muro per giustificare lo strapotere assoluto dei Partiti Comunisti.

Se le opposizioni volessero seriamente intraprendere un percorso verso quella cultura di governo che il «centro» rappresenta e oggi appare marginalizzata, dovrebbero lavorare ad un condiviso programma riformista, non a uno strapuntino moderato utile solo a mascherare il proprio sostanziale radicalismo.

Non che il «centro» goda oggi di ottima salute neppure nel centrodestra, stretto tra forze prevalenti che non affondano le proprie radici nel

liberalismo o nel popolarismo. Ma questo resta, al momento, l'unico campo in cui, per tradizione comune, storia e valori minimi condivisi, è possibile immaginare che il gracile albero di «centro» possa tornare a crescere.

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