Passato e presente

Qualche giorno fa il neo-presidente della Consulta Giuliano Amato ha spiegato che nell'esame di ammissione dei referendum i giudici costituzionali non debbono cercare "il pelo nell'uovo"

Passato e presente

Qualche giorno fa il neo-presidente della Consulta Giuliano Amato ha spiegato che nell'esame di ammissione dei referendum i giudici costituzionali non debbono cercare «il pelo nell'uovo». Parole sagge, criticate da quel Solone giustizialista che recita sermoni su il Fatto, il quale naturalmente ha bocciato tout court i quesiti sulla giustizia come incostituzionali. Si badi bene, solo quelli: mentre non ha espresso dubbi sui referendum sulla liberalizzazione della cannabis e sull'eutanasia. Insomma, al solito, visto che il lupo perde il pelo ma non il vizio, si è fatto portavoce per l'ennesima volta della lobby dei magistrati.

Ora si può dire ciò che si vuole, si possono nutrire dubbi sull'opportunità di introdurre con un referendum nella legislazione di un Paese temi delicati come il consumo di marijuana o il fine vita, non fosse altro perché intervengono sulla sfera etica e su argomenti particolarmente sensibili per una comunità. Detto questo, non ci sono delle riserve per cui la Consulta debba dire «no»: in fondo è un modo anche per aprire un dibattito e un confronto nella società su questioni che tengono banco e che vengono approcciate spesso con superficialità. Anche perché la politica, o, meglio, il Parlamento, ha mostrato una colpevole inerzia nell'affrontarle.

Questi discorsi e questi ragionamenti, però, valgono tanto più per i referendum sulla giustizia presentati da Lega e Radicali. Lì non ci dovrebbero essere dubbi nell'ammetterli, tenendo conto lo stato di crisi del nostro sistema giudiziario che ha mostrato molti limiti, incongruenze e determinato storture che hanno inciso non poco sulla Storia del nostro Paese. Ormai è opinione comune che da noi qualcosa, o, meglio, molto, non va nei tribunali e nelle procure (lo pensano pure in Europa). La cronaca e le rivelazioni dell'ultimo anno sono state poi, di per sé, un j'accuse spietato. E qui i ritardi del Parlamento nell'affrontare i nodi di questa crisi sono decennali: è una vita che si attende una riforma della giustizia e quando ci si è provato quella lobby formidabile che difende la casta giudiziaria ha costruito barricate insormontabili in Parlamento. Il «sistema» non funziona. Anzi, peggio, per usare questa espressione nell'accezione usata da Palamara e Sallusti nei loro libri, il «sistema» si è eretto a Potere senza limiti e vincoli, al punto da incidere sulla vita democratica, modificando addirittura, nei fatti, gli equilibri costituzionali.

Per cui i referendum sulla giustizia, a trent'anni da Tangentopoli, possono essere anche l'occasione per una riflessione su quanto avvenne all'epoca, magari dando una risposta sul piano storico a tanti interrogativi rimasti inevasi: si trattò di una vera o di una falsa rivoluzione, se non addirittura di un golpe? E ancora, cosa di buono fu fatto all'epoca, o, al contrario, quanto male fu consumato? In fondo è quella la data d'inizio di un protagonismo esagerato della magistratura che, colpevole una politica inerme e pavida, mutò nella prassi il nostro ordinamento giudiziario e i nostri assetti istituzionali.

Ora i referendum possono essere l'ultima spinta, la più formidabile, per porre fine al disordine. Per chiudere con il voto dell'opinione pubblica l'eredità di un pesante passato e aprire ad un nuovo presente, ad una giustizia giusta, in cui tutti si riconoscano.

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