Quando Elie Wiesel scrisse le sue prime memorie di Buchenwald, le scrisse in Yiddish nel 1954 su una nave che lo portava dall'Europa al Brasile. Più avanti, riscrivendole in francese, Wiesel scelse un tono molto più pacato ancorché disperato, abbandonando la parte più rabbiosa, che vuole ricordare ma anche vendicarsi. Una scelta più volte elaborata dai sopravvissuti alla «morte assoluta», ma poi smussata nella scelta di una memoria collettiva tendente al perdono, decisamente orientata al recupero della vita e dell'ottimismo per il popolo ebraico.
Ogni memoria della Shoah porta con sé mille punti di domanda, e tutti conturbanti e anche imbarazzanti. Quanto più le memorie sono realistiche, vive, disegnate, quanto più ci folgora l'inafferrabilità del significato a meno di accettare inutili semplificazioni retoriche. Inutili, perché, come si vede per esempio nel recente blood libel sulle accuse agli ebrei per il Covid (lo hanno diffuso o non hanno permesso ai palestinesi di vaccinarsi, roba da Der Stürmer, con tanto di vignette), non servono a evitare che l'Idra dell'antisemitismo seguiti a dimenare la sua rivoltante testa. Noi, figli e nipoti di sopravvissuti (mio zio Nedo Fiano alla cui eroica determinazione alla memoria va tutto il mio amore, e mio padre Alberto Nirenstein, storico della Shoah, che ha scelto di testimoniare per gli assassinati coi suoi libri senza un attimo di tregua), restiamo soli ogni giorno di più. Loro porgevano come un fiore rosso la loro vita, noi dobbiamo inventarci come non farlo appassire.
Mi dispiace proporre qui, ma lo faccio per capire bene, il discorso di Himmler pronunciato davanti ai Reichsleiter e ai Gauleiter a Poisen, il 6 ottobre 1943, citato da Annette Wieviorka ne L'era del testimone: «Vi prego di ascoltare e di non far parola... ci si pose la domanda che ne facciamo delle donne e dei bambini? Anche in questo caso mi decisi per una soluzione chiara. Non ritenni giusto sterminare gli uomini - diciamo uccidere e farli uccidere - e lasciar crescere i bambini che potranno vendicarsi dei nostri figli e nipoti. Così si dovette prendere la difficile decisione di far scomparire questo popolo dalla terra... la questione ebraica sarà regolata entro la fine di quest'anno... in un lontano futuro potremo porci il problema se dire qualcosa di tutto ciò al popolo tedesco... assumiamo la responsabilità portando questo segreto con noi nella tomba». Nella decisione quintessenziale che rappresenta tutta la Shoah, quella di ammazzare tutti i bambini ebrei, è inclusa, esplicita, la decisione di cancellare la memoria. «In un lontano futuro vedremo... porteremo questo segreto nella tomba». Qual è il segreto? Che cosa vuol dire dunque ricordare e quindi capire la Shoah? Su quest'argomento c'è molta confusione. L'epitome è la negazione della Shoah. La promessa dell'Iran di distruggere lo Stato d'Israele trova una sua geometrica sensatezza nel negazionismo: ammazzare la memoria, e ricominciare ad ammazzare gli ebrei. Anche il terrorismo, che nega agli ebrei la loro storia di popolo mediorientale collocandoli nell'universo sfrangiato del male astratto, ha come scopo finale quello di eliminarli. Ecco che si presenta qui la necessità di non estrapolare nella storia ebraica il ruolo di vittima come ruolo principe, ma di guardarla nel suo insieme vitale, culturale, plurimillenario se si vuole contrapporsi al nazismo sterminatore. L'inaspettata impennata, in questi ultimi anni, dell'antisemitismo di destra e di sinistra, la sua aggressività omicida, l'ignoranza popolare sull'argomento, la facilità con cui senza battere ciglio membri del Congresso americano, specie il gruppetto guidato da Rashida Tlaib, propagano stereotipi sul denaro, le lobby che controllano gli USA, le demonizzazioni politiche tipo l'accusa di apartheid in Israele, la comparsa di simboli nazisti a destra; tutto questo contraddice l'adozione dell'IHRA da parte di tanti Paesi (l'IHRA è una organizzazione intergovernativa fondata nel 1998 che unisce i governi e gli esperti per rafforzare, promuovere e divulgare l'educazione sull'Olocausto). Eppure le iniziative sono migliaia, ci sono gli studi specializzati, i corsi di laurea e scolastici, le gite ad Auschwitz, i film, i serial... La storia è narrata in genere come una battaglia da fiabe, in cui il male è rappresentato nella forma di un uccello nero, il nazismo, che si posa sulla Germania e sul mondo; e dall'altra come l'evento di definizione suprema del popolo ebraico: la sofferenza dovrebbe, in sé, diventare la strada per dissuadere da successive aggressioni, o addirittura evitare in generale oppressioni, ingiustizie, genocidi. Ma funziona? Non si direbbe.
Yad Va Shem, il famoso Museo della Shoah di Gerusalemme, bello e attivo, ricco di documentazione nelle mostre e negli archivi che raccolgono centinaia di migliaia di testimonianze, tappa di ogni visita ufficiale in Israele, nasce nel 1953, dopo anni di discussioni e preparazione con una legge che istituisce «l'autorità per la memoria dei martiri e degli eroi dell'Olocausto». Più tardi il Museo è diventato una magnifica collezione oltre che di eventi storici anche di ritratti di persone come noi, una a una selezionate dal fatto di essere ebree e assassinate, strappate via da vite di artista, di professionista, di maestro, di scolaro. All'inizio la memoria era segnata da una scelta interpretativa precisa: nel giardino davanti la vecchia costruzione campeggiava la statua di Mordechai Anielewitz, il capo nella rivolta del Ghetto di Varsavia ucciso dai nazisti a 24 anni. Mio padre, che negli anni dopo la guerra ha partecipato al ritrovamento delle memorie del Ghetto seppellite in bidoni sotto le sue rovine, ne parlava con venerazione. Era il modello della memoria che doveva ispirare il ritorno alla vita. La statua mostrava il ragazzo proteso verso la libertà, in piena battaglia: così si sceglieva di ricordare le vittime della Shoah allora, mentre il popolo ebraico rinasceva nello Stato d'Israele già tuttavia assediato da mille guerre. La pena e l'eroismo erano la strada del riscatto. Di fatto questo ha illuminato alcuni aspetti importanti della Shoah, la rivolta di Sobibor (il campo di concentramento dove sono stati uccisi i miei nonni paterni e cinque dei loro figli), l'eroismo di vari Ghetti nel combattere i tedeschi e quello di personaggi meravigliosi come il pedagogo Janusz Korczak che andò coi suoi bambini a morire a Treblinka, i «giusti fra le nazioni» che salvarono parecchi ebrei rischiando e pagando. La vastissima memorialistica ha suscitato infinite discussioni, anche se sia bene o male vivere con la memoria: per esempio il filosofo Avishai Margalit vi scorge elementi distruttivi, si chiede se la memoria non porti a sentimenti nevrotici e di vendetta, contesta l'idea freudiana che, liberando la memoria, la società trovi un equilibrio pacificato. Primo Levi, fra i più grandi costruttori di memoria, sosteneva persino che chi è tornato non ha visto veramente a fondo la Gorgone, e chi l'ha vista non è tornato per ricordare e raccontare. La grande critica letteraria e filosofa Ruth Wisse pensa che la «Holocaustologia» sia un modo di evitare l'incontro diretto con la vera storia e tradizione del popolo ebraico, e mette in guardia dal rischio di ridurre gli ebrei alla dimensione della loro distruzione: gli ebrei non volevano, non vogliono, non hanno intenzione di indossare la maschera del martirio, di diventare la parabola della seconda crocifissione. L'omaggio agli ebrei assassinati diventa moralmente errato quando prende la precedenza o diventa un sostituto di uno sguardo ammirato e giusto sulla fioritura contemporanea del popolo ebraico nello Stato d'Israele, e anzi, lo si copre di nuovo di accuse travestite da critica politica. La perversione di quello che Robert Wistrich ha chiamato «nazismo rovesciato» arriva ad accusare gli ebrei di essere nazisti ed è la più paranoica e allarmante fra le forme di «memoria»: la praticano in molti, non solo i terroristi di Hamas e i loro alleati che danno dei «nazisti» agli israeliani perché si difendono da attacchi portati alla gente di Israele solo perché ebrea; ma anche i religiosi ebrei del quartiere di Bnei Berak, a Tel Aviv, che attaccano i poliziotti gridando loro «nazista» perché impediscono le violazioni degli ordini anti-Covid (come le riunioni religiose di massa senza maschera). È memoria questa? Certo che no, anche se alla parola «nazi» viene attribuito tutto il male contro un preteso concetto di bene. La maniera più comune in uso anche da noi in Italia di interpretare, oggi, il dovere della memoria è di fatto in uso in tutto il mondo occidentale. La Shoah è stata resa una specie di semaforo in continuo movimento rispetto al «male» universale, e questo è legittimo. La foga omicida del nazismo ha travolto anche gli omosessuali, i rom, altri gruppi sociali ed etnici disprezzati. Essi devono essere ricordati, difesi salvaguardati, come anche gli Armeni o, oggi, gli Uguri in Cina. Ma non c'entra. Questo non toglie nessuna specificità alla scelta di fare sparire gli ebrei, proprio e solo gli ebrei, dalla faccia della terra: la guerra contro di loro è stata politica ed ideologica, condotta con l'aiuto della maggior parte delle popolazioni che Hitler aveva schiacciato. La Soluzione Finale è stata l'ideologia più potente del Vecchio Continente, una forza che ha unito i conquistatori e i conquistati. La vittoria sul nazismo non è un dono agli ebrei dei Paesi Europei che con l'aiuto americano vinsero la guerra. L'antisemitismo, è triste ma vero, vinse la sua guerra. La teorizzazione nazista di Rosenberg e Hitler per cui l'ebreo non è solo una razza malvagia, ma anche il bastardo per eccellenza, l'uomo dell'universale astratto opposto all'«uomo dell'identità singolarizzata e concreta» come scrissero Philippe Lacoue Labarthe e Jean Luc Nancy ne Il Mito Nazi, è ancora viva e dal nazismo è poi passata alla narrativa comunista e poi all'antisemitismo antisraeliano specialmente arabo, che immagina che l'ebreo non appartenga a niente, neppure a Israele, che la sua presenza sia solo colonizzatrice, crudele, sfruttatrice di beni altrui.
A Maitland, Florida, nel Museo dell'Holocausto ha avuto luogo una mostra di foto in memoria dell'afro-americano George Floyd, ucciso da un ufficiale di polizia di Minneapolis ora cacciato dai ranghi, il 25 maggio. Il Museo ha spiegato che intendeva usare la lezione dell'Olocausto «per costruire una comunità libera dall'antisemitismo e da ogni forma di pregiudizio e intolleranza. Le foto parlano di una storia che contiene un messaggio universale che può unirci». È una bella idea, ma la Shoah non è affatto una forma di oppressione e o di pregiudizio generico, è l'incredibile storia della pianificazione e realizzazione dello sterminio di un popolo, fra cui tanti bambini. L'ideologia nazista della distruzione degli ebrei e la sua realizzazione è molto specifica e accurata, la sua pianificazione fatta di numeri, indirizzi, convogli, camere a gas, di previsioni e di realizzazioni tecniche e dedicata agli ebrei. Nella Bibbia la richiesta di ricordare è continua e assillante, essa è legata al concetto stesso di sopravvivenza.
L'espressione «cancellare il nome» (Deuterenomio 29,19) è sinonimo di cancellazione dalla storia. «Ora giurami! - dice Samuele 24,21 - che non sterminerai i miei discendenti dopo di me e non cancellerai il mio nome». Il suo nome è «popolo ebraico».
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