Tre colpi di pistola. Tanto bastò al killer del professor Roberto Klinger, stimato diabetologo ed endocrinologo di Milano, nonché medico sociale della “Grande Inter” di Helenio Herrera, a siglare uno degli omicidi più enigmatici degli anni '90.
A trent'anni dal delitto, l'assassino non ha ancora un'identità. Anche il movente resta un mistero: dapprima la vendetta di un paziente, poi l'ipotesi di uno scambio di persona. Fatto sta che nessuna delle piste battute dagli inquirenti dell'epoca trovò mai riscontro.
"Furono sparati tre colpi in rapida successione dalla distanza di poche decine di centimetri. Uno di questi in particolare fu sparato da distanza non superiore a 10/12 centimetri. Tutti i proiettili hanno colpito la guancia sinistra della vittima a distanza compresa fra 168 e 171 centimetri dal piano plantare. Pertanto non è riuscita a opporre resistenza all’omicida", spiega alla nostra redazione Pietro Benedetti, perito e consulente balistico di comprovata fama che si occupò del caso.
Chi era Roberto Klinger
Quando il professor Roberto Klinger fu ucciso aveva 67 anni. Di origini austriache, nacque e visse a Milano, città a cui era profondamente legato. Diabetologo ed endocrinologo di fama consolidata, internista alla clinica San Pio X, era noto per essere il medico sociale dell'Inter e del Basket Cantù. Stimatissimo nell'ambiente dell'alta borghesia milanese, Klinger si definiva “un artista prestato alla medicina” dal momento che, nelle ore libere dagli impegni professionali, amava dipingere. Padre di tre figli e marito amorevole, dedicò la sua vita anche alla ricerca in campo medico. Il giorno in cui fu ucciso, all'interno della vettura, fu ritrovata la bozza di un manuale di diabetologia: la sua ultima opera.
L'omicidio
Era il 18 febbraio del 1992. Come ogni mattina prima di andare al lavoro, Roberto Klinger aveva portato a spasso il suo cane. Rientrò in casa poco dopo le 7, un'abitazione al civico 29 di via Muratori, salvo poi riuscire una manciata di minuti più tardi. Non fece in tempo ad accomodarsi nell'auto, una Fiat Panda di colore celeste, che fu freddato con tre colpi di pistola: due al petto e uno al torace. Sul posto accorsero una volante della polizia, gli agenti della squadra mobile guidata dal comandante Filippo Ninni, e la gli esperti della scientifica. Il professore fu rinvenuto riverso su un fianco, con la testa reclinata sul sedile del passeggero e una gamba fuori dall'auto. Segno che il killer non gli aveva lasciato scampo né tempo di reagire. Ma chi poteva averlo voluto morto?
L'arma del delitto
I periti balistici, Pietro Benedetti e Domenico Sarza, stabilirono che l'assassino esplose tre proiettili calibro 7.65 con una pistola Molgora, un'arma modificata per uccidere. Si trattava di un'arma insolita, utilizzata perlopiù negli ambienti della malavita.
"La pistola semiautomatica Molgora è copia della pistola semiautomatica Beretta modello 81 calibro 7,65 Browning, ma è dimensionata per sparare cartucce calibro 8 millimetri a salve che sono prive di proiettile - spiega il dottor Benedetti - La canna della Molgora, realizzata in lega Zama a bassa resistenza, era ostruita e i gas prodotti dalla combustione della polvere fuoriuscivano dai fori praticati nella parte superiore della canna. La ditta Molgora aveva sede a Milano in via Valtorta 38 e ha cessato l’attività. Per sparare le cartucce calibro 7,65 Browning si doveva sostituire la canna e modificare la testa dell’otturatore".
"Ipoteticamente non si può escludere l’impiego di una Beretta modello 81 sulla quale era stata montata, in sostituzione della canna originale, una canna la cui rigatura era stata realizzata con metodi tecnologici diversi da quelli impiegati dalla Beretta. Inoltre il percussore originale dovrebbe essere stato manomesso o sostituito - continua l'esperto - Naturalmente si ritenne fortemente probabile che l’omicidio fosse stato compiuto con una pistola Molgora alla quale erano state apportate le modifiche precedentemente citate. In particolare la rigatura della canna. Numerose pistole Molgora calibro 8 millimetri a salve, che erano di libera vendita, furono dolosamente trasformate in pistole idonee allo sparo di normali cartucce calibro 7,65 Browning. Infatti alcuni omicidi commessi in Lombardia e anche in sud Italia furono commessi con armi a salve modificate per sparare cartucce calibro 7,65 Browning".
Le indagini
Le indagini furono tutt'altro che semplici. Via Muratori era una vecchia via di Milano che, un tempo, conduceva da Porta Romana alle campagne di Boffalora, Castagnedo e Monserchio. Una strada tranquilla, abitata da gente per bene. Quel giorno in cui il professore fu ucciso, un freddo lunedì, c'erano in giro pochissime persone. Gli inquirenti faticarono non poco a trovare qualcuno che potesse aver visto o sentito qualcosa.
Soltanto una studentessa universitaria, che all'ora del delitto era a spasso con il suo cane, riferì di aver udito tre “detonazioni” e di aver visto “un uomo voltato di spalle, alto 1.75, con i capelli ricci e con un giubbotto di colore verde o marrone scuro”, allontanarsi dalla punto esatto in cui si trovava la vettura del professor Klinger - sul marciapiede antistante il civico 49 di via Muratori – verso Viale Friuli. Nei giorni successivi altri due studenti confermarono la versione della ragazza. Purtroppo, però, nessuna delle testimonianze si rivelò utile alle indagini.
Le ipotesi
Tre bossoli di una calibro 7.65 e l'identikit del presunto assassino. Gli inquirenti non avevano a disposizione altri elementi per risolvere l'omicidio. La prima pista battuta fu quella di una rapina sfociata nel sangue. Nelle settimane precedenti al delitto, alcuni residenti di via Muratori avevano segnalato diversi furti messi a segno perlopiù da tossicodipendenti e balordi. Ma non era quello il caso del professor Klinger: il killer aveva agito con la precisione di un cecchino.
La seconda ipotesi fu quella di un “delitto passionale”: venne subito scartata. Il dottore non aveva scheletri nell'armadio ed era ben voluto da tutti. Allora di cosa si trattava? Due giorni dopo l'omicidio alla redazione dell'Ansa e a quella del Corriere della Sera di Milano giunse una lettera firmata dalla Falange Armata, un'organizzazione terroristica attiva in Italia negli anni '90, che rivendicava il delitto sostenendo di averlo fatto per “colpire le attività politiche” della vittima. Ma si trattò di una rivendicazione fasulla dal momento che il professore era estraneo agli ambienti della politica. Dunque non restò che un'ultima possibilità: la vendetta di un paziente.
Il paziente sospetto
La svolta nel caso ci fu due mesi dopo l'assassinio. Un collega del professor Klinger rivelò agli investigatori di avere “forti sospetti” su un paziente, tal Alessandro Luca Pieretti. Costui aveva denunciato la clinica San Pio X sostenendo di essere stato curato male durante il periodo di degenza e chiedendo 3 miliardi di risarcimento per danni. Tra i testimoni a suo favore aveva indicato anche il professor Klinger e, nelle settimane antecedenti al delitto, lo aveva cercato con insistenza al telefono.
Alessandro Luca Pieretti era un medico molto noto: sette specializzazioni, attestati internazionali e prossimo alla laurea in legge. Viveva con la madre in un appartamento alla periferia di Milano in cui stipava decine di armi anche se tutte regolarmente denunciate e, molto tempo prima del delitto, vendute per ordine della Magistratura. Chi lo conosceva bene diceva di lui che fosse un tipo dai “modi bruschi” e che spesso girava con due pistole sotto il camice da lavoro. Un tempo era stato primario del Centro Ortopedico e Traumatologico ma poi, per via di un referto redatto dai medici della stessa struttura che gli avevano diagnosticato un disturbo multiplo della personalità, fu declassato a responsabile dell'archivio medico. Aveva ucciso lui il noto diabetologo?
L'archiviazione del caso
Secondo il sostituto procuratore Claudio Gittardi, coordinatore delle indagini, Pieretti avrebbe avuto motivo di nutrire un forte risentimento nei confronti del professor Klinger, conscio del fatto che costui non avrebbe mai deposto a suo favore nel processo contro la clinica San Pio X. Inoltre la mattina del delitto il medico aveva timbrato il cartellino alle 6.57, un'ora prima del suo solito orario di ufficio. E poi l'alibi era poco convincente. Ci fu poi un testimone, un ragazzo che lavorava nel reparto macelleria di un supermecato in viale Friuli, che rivelò agli inquirenti di aver visto un uomo “grande e grosso” fermo davanti alla casa della vittima sia nei giorni antecedenti al delitto che proprio quella mattina.
Dopo due anni di indagini il pubblico ministero chiese al gip Fabio Paparella l'arresto del dottor Pieretti, che intanto aveva scritto lettere al Papa e al Presidente della Repubblica professandosi innocente.
Finito nel mirino degli inquirenti come unico indagato del caso, Pieretti si rivolse a un noto avvocato del foro di Milano, il dottor Armando Cillario: fu la sua salvezza. Il legale riuscì a dimostrare l'estraneità alla vicenda del suo assistito puntando tutto sullo scambio di persona. Nello stesso condominio in cui viveva il professore infatti, c'era un uomo fortemente somigliante alla vittima – al tempo si parlò addirittura di un “sosia” - il cui figlio si era schierato contro la mafia. Presumibilmente il misterioso killer aveva “sbagliato bersaglio”.
Inoltre Cillario dimostrò che per Pieretti sarebbe stato materialmente impossibile commettere l'omicidio: in primis perché risultò che pressappoco alle 8 di quella mattina il medico fosse in compagnia della fidanzata e della suocera (l'alibi fu confermato) e poi perché ci avrebbe impiegato 52 minuti per percorrere il tragitto da Via Muratori alla casa delle due donne. Infine anche la testimonianza del macellaio e quella della studentessa furono rivalutate. Il suo assisto era di corporatura robusta e zoppicante da una gamba: non avrebbe mai potuto allontanarsi rapidamente dalla scena del crimine.
La tesi del legale fu ritenuta credibile da i giudici della Cassazione che, accogliendo il ricorso in appello dell'avvocato, decisero di non dare seguito alla misura cautelare nei confronti di Pieretti. Nell'agosto del 1995 il caso fu definitivamente archiviato.
Chi ha ucciso il professor Klinger?
A tre anni dall'omicidio giunse alla questura di Milano una lettera anonima in cui il firmatario, allegando al dattiloscritto una fotocopia del ricettario medico del professor Klinger, sosteneva di essere il “vero assassino” e di aver voluto uccidere “quell'anima prava”. L'autore dello scritto non è mai stato identificato.
A trent'anni dall'omicidio restano solo dubbi e sospetti.
Chi ha ucciso il noto professore? Marco Klinger, stimato chirurgo plastico e figlio del famoso medico sociale della “Grande Inter”, non ha dubbi: “Una vicenda sicuramente legata a un paziente”, ha dichiarato in una intervista rilasciata a Il Giorno a febbraio 2022. Per certo resta il mistero di un cold case italiano e il ricordo di un uomo perbene che, ancora oggi, è rimasto nel cuore di tutti coloro che lo hanno conosciuto.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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