La fortuna è cieca, ma anche la giustizia, a volte. Prendete per esempio la vicenda di un non vedente che, a Potenza, finisce sotto processo per una aggressione. La condanna della Corte d'Appello del capoluogo lucano ora fa discutere perché l'imputato non è stato in grado di "leggere" le accuse a suo carico notificategli con un documento, quello contenente il capo d'imputazione, scritto per chi la vista ce l'ha. Il caso, finito sotto la lente della cronaca - ne scrive il quotidiano "La Gazzetta del Mezzogiorno" - non è una novità, ma certo la battaglia legale portata avanti dal difensore dell'uomo, l'avvocato Massimo Macchia, non passa inosservata. Il legale ha chiesto, invano, alla Corte d'Appello, di dichiarare nulla la notifica fatta all'imputato cieco, ritenendo leso il suo diritto a ricevere le carte che riguardavano la sua vicenda tradotte con la tecnica "braille" che permette ai non vedendo di utilizzare il tatto per riconoscere i segni e tradurli in lettere. L'avvocato Macchia voleva ricorrere alla Corte Costituzionale, ma alla sua richiesta si sono opposte con successo la procura generale e il difensore della parte civile, avvocato Gelsomina Sassano. Perché il ricorso è stato respinto? Perché al contrario delle lingue parlate dalle minoranze o della lingua dei segni per i sordomuti, riconosciute dalla giustizia come tali, il "braille" è invece equiparato alle tecniche di scrittura e non rientra quindi nei casi per i quali il sistema giudiziario riconosce la necessità di tradurre anche i capi d'imputazione.
La difesa dell'imputato non ha visto, quindi, riconosciute le sue ragioni che portavano ad assimilare il "braille" alle lingue delle minoranze o a quella dei sordomuti: nessuna traduzione era quindi necessaria per l'uomo imputato di aggressione. Per la Corte d'Appello, avrebbe potuto farsi leggere il capo d'imputazione da una persona dotata di vista normale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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