"Il gioco d'azzardo patologico? Dipendenza uguale alla droga"

Intervista allo psichiatra Giuseppe Carrà: "Il principale sistema diagnostico mondiale nell'ambito della salute mentale ha inserito il gioco d'azzardo patologico all'interno della sezione dei disturbi correlati alle sostanze"

Giuseppe Carrà, psichiatra
Giuseppe Carrà, psichiatra

Per cercare di capire meglio il fenomeno della ludopatia, abbiamo intervistato il dottor Giuseppe Carrà, psichiatra dell'Ospedale San Gerardo di Monza.

Dottore, come si pone la medicina di fronte chi non riesce a smettere di giocare d'azzardo?

È sempre stata considerata una patologia. La novità più recente è che il principale sistema diagnostico nell'ambito della salute mentale, il Dsm (Diagnostic and Statistical manual of mental disorders) dell'associazione psichiatrica statunitense, nella sua ultima edizione ha inserito il gioco d'azzardo patologico all'interno della sezione dei disturbi correlati alle sostanze. In realtà è stata solo una conferma di quanto nella pratica clinica abbiamo osservato negli anni.

Si può dire, dunque, che i ludopatici sono come i drogati?

L'insieme dei sintomi della sindrome del gioco d'azzardo patologico e i meccanismi biochimici cerebrali che sottendono a questo tipo di disturbo sono del tutto simili a quelli che la letteratura e la ricerca ha potuto studiare nelle più classiche dipendenze da sostanze, dall'alcol ai cannabinoidi, la cocaina e l'eroina.

Ma nel caso del gioco manca la “sostanza” che crea dipendenza...

In realtà il sistema di ricompensa, il “reward” che sottende a ogni dipendenza da sostanze è presente nella stessa modalità e nella stessa misura nelle persone affette da gioco d'azzardo patologico. Non ci sono differenze.

Chi è più colpito?

Per motivi culturali prima certi comportamenti erano più coperti o oscuri, ma comunque presenti nella società. Di certo la diffusione e la varietà dell'offerta su molteplici canali, adeguati più o meno a tutte le fasce di età e socio-culturali, ha aumentato l'incidenza di questo fenomeno.

Qualcuno dice che quando c'è crisi conomica si gioca di più...

Esistono delle ipotesi, ad oggi non verificate ma suggestive e dunque meritevoli di attenzione, per cui nei periodi di crisi economica come l'attuale il ricorso al gioco d'azzardo patologico sia più diffuso. Esistono anche suggestioni non ancora comprovate in termini di ricerca, per cui il gioco, più o meno patologico, o comunque la propensione al gioco d'azzardo, sia più diffuso in momenti di scarsa disponibilità finanziaria, dunque in momenti di crisi come quello che stiamo attraversando, e questo riguarda in particolar modo le fasce di popolazione meno abbiente.

Ma è davvero così?

È una lettura a cavallo tra la sociologia e l'epidemiologia che merita un approfondimento, così come le reazioni e le difficoltà di adattamento al mutamento delle condizioni economiche e sociali. Qualche anno fa abbiamo fatto una ricerca in un piccolo centro della provincia pavese, nella piazza, frequentata da un'utenza non giovanile né particolarmente abbiente. Pensiamo alla figura, spesso richiamata, della pensionata che ha una disponibilità di reddito molto limitata e ne spende una proporzione cospicua nei giochi a lei più vicini, come lotto o superenalotto...

Che risultati vi ha dato la ricerca?

Abbiamo riscontrato dei tassi di gioco d'azzardo patologico molto elevati, anche in un contesto apparentemente non così colpito dalla crisi.

Quale meccanismo impedisce al ludopatico di fermarsi?

Il giocatore d'azzardo patologico, al pari della persona dipendente da sostanze, vede nell'impulso irresistibile al gioco, che noi chiamiamo “craving”, la caratteristica clinica principale. Irresistibile perché ad esso è legato un effimero ma intenso piacere, il “reward” (ricompensa) come dicono i neuroscienziati. Questo, alla fine, non è differente dall'effetto di una sostanza come l'eroina o la cocaina. Inoltre la scienza ha individuato che il comportamento di chi assume sostanze così come quello del giocatore d'azzardo patologico è dovuto a un deficit dell'analisi decisionale.

Ci sono altri aspetti comuni tra ludopatia e tossicodipendenza?

La compromissione del funzionamento legata al comportamento.

Che significa?

Le relazioni sociali, amicali e familiari e il contesto finanziario vengono profondamente compromesse dall'uso delle sostanze o dal gioco patologico. E la consapevolezza del danno viene rapidamente messa da parte a favore della gratificazione immediata. In questo ritroviamo il paradigma della tossicodipendenza.

Rivolgersi al Sert è adeguato ai problemi di un ludopatico?

Negli ultimi anni i Sert si sono riconvertiti venendo incontro a questa domanda di cure. Va osservato che i servizi per la tossicodipendenza sono storicamente in sofferenza di organico e risorse, laddove di anno in anno cresce l'utenza delle dipendenze classiche a cui si aggiunge quella delle nuove dipendenze. Il modello dei Sert è classicamente multidisciplinae e quindi adeguato alla cura del gioco d'azzardo patologico. Ma ci sono alcuni problemi.

Ad esempio?

Lo scarso tasso di professionalità psichiatrica nei Sert può diventare una fragilità rispetto a questa offerta di trattamento. Poi c'è un altro aspetto da non sottovalutare. Le caratteristiche cliniche di un dipendente da eroina sono simili a quelle di un dipendente dal gioco d'azzardo. Ma l'immagine che quest'ultima persona ha di sé è profondamente differente. Dunque può essere difficile avvicinarsi al Sert per una persona che vede il proprio problema e la propria identità molto diversa da quella di un cocainomane o eroinomane. Si tratta di una criticità che probabilmente non può essere risolta se non creando dei servizi distinti e dedicati.

Lo Stato sta facendo abbastanza per questa malattia?

I sistemi sanitari di molti Paesi prevedono che una parte cospicua dei proventi che lo Stato incamera, come soggetto che fornisce la concessione, sotto varie forme, delle licenze per il gioco d'azzardo, venga reinvestita per la cura e la ricerca nella sindrome da gioco d'azzardo patologico. Mi sento di dire che in Italia questo processo è ancora agli albori.

Qualcosa però è stato fatto?

Senza dubbio sì. Emergono alcune sensibilità, lo vediamo per alcune normative a livello nazionale, regionale o comunale. Ma una piena assunzione di responsabilità delle conseguenze del gioco d'azzardo patologico, di cui lo Stato è un comprimario, è ancora lontana da venire. Il decreto Balduzzi, che tanto onore ha avuto dalle cronache, è stato un primo tentativo di smuovere le acque. Ha sollevato il problema, ma sicuramente ancora molto resta da fare.

Voi psichiatri cosa state facendo?

Qualche anno fa il mio gruppo di ricerca è stato avvicuinato da uno dei principali concessionari italiani per il gioco d'azzardo. Ci hanno chiesto di testare un modello elaborato da un famoso giocatore di poker online, per un'autovalutazione sul rischio di incorrere nel gioco patologico.

Come avete risposto?

Abbiamo rilanciato, accogliendo la loro proposta ma chiedendo che a questa potesse essere accompagnata la possibilità di utilizzare, in forma assolutamente anonima, i dati della loro piattaforma online per studiare le caratteristiche e i comportamenti degli utenti.

È andata a finire bene?

Dopo i primi incontri, apparentemente di reciproca soddisfazione, il nostro committente si è dileguato.

Sicuramente ciò sarà avenuto per valide logiche finanziarie, commerciali e gestionali. Ma resta il dubbio che la nostra proposta possa essere stata vista come la possibilità di fornire all'utenza un'informazione che avrebbe potuto in qualche modo ridurre i loro volumi di gioco.

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