Dopo queste morti in diretta ci sentiamo tutti un bersaglio

Le immagini del kamikaze che si fa esplodere a Istanbul sono universali

Dopo queste morti in diretta ci sentiamo tutti un bersaglio

È la morte che cammina con noi. La vedi arrivare: c'è gente che si muove, si gira, guarda in una direzione, poi sente gli spari, comincia ad agitarsi. Poi corre. Vanno tutti nella stessa direzione perché dalla morte cercano di fuggire. La strage di Istanbul è nelle immagini che abbiamo visto ieri mattina e che segnano la differenza con gli attacchi di Parigi e Bruxelles. Lì la morte era vicina geograficamente e culturalmente, ma lontana visivamente: la dovevi immaginare. Certo non si fa fatica e non è detto che faccia meno paura. Ma ieri è stato tutto diverso. Perché la prima sensazione, guardando i tg notturni, seguendo le dirette on-line e sui social network, era di un evento più distante. Qualcosa di così simile a Parigi e Bruxelles ma lontano. Perché la geografia evidentemente conta ancora nell'identificazione, nella sovrapposizione con un fatto, nell'immedesimazione con le vittime. Qualcosa che più o meno significa: sì, ma è in Turchia. Poi sono arrivate le immagini, i video delle telecamere a circuito chiuso: prima i viaggiatori che si mettono al riparo in un negozio, poi l'esplosione del kamikaze che crea una fiammata che invade tutto il monitor, poi il terrorista che corre armato e spara ad altezza d'uomo con i viaggiatori che cercano riparo oltre i metal detector, poi un altro kamikaze, ferito da un poliziotto, che cade per terra, cerca di azionare la cintura esplosiva mentre la gente fugge e mentre l'agente gli dice di fermarsi puntandogli la pistola contro. Lui continua, armeggia con quel giubbino, poi allarga le braccia e si fa esplodere. L'immagine diventa tutta gialla, poi tutta bianca, poi tutta nera.

Una sceneggiatura improvvisata della realtà trasmessa in differita ma avvenuta in diretta. È così che Istanbul non è più Istanbul e basta, può essere qualunque posto al mondo. L'aeroporto è il non luogo perfetto: è più o meno uguale dappertutto, in Italia, in Francia, in Europa, in Medio Oriente. Ci sono anche gli stessi negozi, ci sono persino le stesse insegne. Le immagini della morte sono state il motivo per cui l'11 settembre è indimenticabile, incancellabile, quasi incredibile.

Sono passati quindici anni e molti attentati. C'è stata Madrid l'11 marzo 2004 e poi Londra il 7 luglio 2005. Due capitali europee colpite a freddo nelle ore di punta, sui treni, nelle metropolitane, in autobus. L'assenza di video le ha sepolte nella nostra memoria. Ci sono, ma sono diventati distanti. Charlie Hebdo ci ha riportato la morte in diretta con il video ripreso dal tetto di un palazzo che mostra l'omicidio infame di un poliziotto finito anche se era già ferito e immobile. La contabilità di quell'attacco è infinitamente inferiore a quella del 13 novembre, del Bataclan, dei bistrot presi di mira con i kalashnikov. Ma l'assenza del macabro reportage della strage è come se avesse paradossalmente sedato il dolore. Sappiamo che la morte è arrivata, ma non l'abbiamo vista. Anzi abbiamo visto il salvataggio: i ragazzi che scappano dall'ingresso secondario e si mettono al riparo. Le mura di quel teatro hanno fatto da lenzuolo bianco, quello che si stendeva una volta sui cadaveri degli agguati o degli incidenti perché nessuno potesse vedere la morte in faccia e per rispetto delle vittime. Sappiamo che oltre quelle pareti c'era una carneficina, ma lo sappiamo grazie alle parole. Ed è diverso, molto diverso. Come per le bombe all'aeroporto e alla metropolitana di Bruxelles.

A Istanbul no: abbiamo visto e aver visto ha cambiato la nostra percezione di quello che è successo. Sappiamo che è più vero di quello che immaginavamo. Aver visto ha ricordato che il fatto che possa accadere a ciascuno di noi è diventata una possibilità.

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