La cappa del lutto per la morte di cinque persone è scura e straziante, ma qualche raggio di luce inizia a filtrare sulla strage di Brandizzo. Abbastanza per delineare i contorni di un fenomeno ben conosciuto e mai combattuto, anzi quasi guardato con simpatia nel Paese: il mancato rispetto delle regole.
I filmati e la registrazione delle telefonate fra la dirigente della movimentazione di Chivasso e il tecnico della rete ferroviaria che accompagnava la squadra esterna di manutentori falciata dal treno raccontano una verità: il tecnico «scorta ditta» avrebbe lasciato entrare gli operai sui binari dopo tre dinieghi al via libera, garantendo che in caso di pericolo sarebbe stato lui ad avvertirli. Starà ovviamente agli inquirenti accertare i dettagli e capire se si è trattato di un caso isolato di condotta irresponsabile o di un modus operandi teso a guadagnare sistematicamente tempo (che è poi sempre - e tristemente - denaro). Noi qui, invece di chiederci retoricamente come sia stato possibile, azzardiamo un'altra riflessione: stupisce che di questi orrori non ne capitino di più.
La prima considerazione è antropologica e culturale, tangenzialmente politica. In Italia le regole - leggi, norme, tasse, procedure e adempimenti -, sono sempre percepite come semplici suggerimenti o gioghi liberticidi. Un po' per motivazioni storiche legate alla passata resistenza contro le dominazioni straniere, un po' perché la tendenza alla legiferazione ridondante (32mila pagine di articoli e commi ogni anno) crea una burocrazia elefantiaca in cui si smarrisce la differenza fra ghiribizzo leguleio e norma fondamentale. Fatto sta che, comunque, le regole sono invise in maniera bipartisan: le odia la sinistra che le vede come strumenti di conservazione e reazione, ma spesso le mal digerisce anche la destra, che le percepisce come lacciuoli illiberali. Il risultato è che ognuno osteggia le regole con cui non si trova d'accordo e - in pensieri, parole, opere e omissioni - chi le aggira o le infrange è sempre visto come eroe o furbo. Mai come un incosciente o un incivile.
In questo quadro, si innesta un aspetto psicologico che chiama in causa la responsabilità individuale. Ovvero la tendenza a sottostimare il pericolo, a pensare «che sarà mai, mica succederà proprio a me». I dati Ipsos dicono che circa il 70% degli automobilisti non rispetta il Codice della Strada. Qualche chilometro orario in più, un bicchiere di vino: nessuno lo fa per cupio dissolvi, pochi lo fanno per adrenalina, quasi tutti perché sono convinti di avere comunque le risorse per cavarsela in caso di imprevisto. Se arriva il treno, qualcuno avviserà e qualcuno si sposterà. Poi però, se non succede, è difficile incolpare lo Stato.
In questi giorni parecchie ricette sono state rovesciate sul tavolo della discussione sulla sicurezza lavorativa: dai turni di manutenzione più lunghi agli investimenti in tecnologia (il cosiddetto sistema Ertms di gestione del traffico ferroviario). Tutto giusto, ed è doveroso che si proceda in questa direzione, per ridurre al minimo le possibilità che tali tragedie si ripetano, vuoi per imprudenza, vuoi per dolo o vuoi addirittura per calcolo spietato.
Ne aggiungiamo una: la «riabilitazione» delle regole e il ripristino di un sistema sanzionatorio certo. Perché le regole, per quanto possano sembrare talvolta ottuse o ingiuste, sono la base per vivere in una società civile. Stenderne di chiare ed esigerne il rispetto può essere invece la base per sopravvivere.
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