«Che cosa è, dunque, l'onestà in politica? L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Avevo in mente queste parole di Benedetto Croce quando il 5 agosto del 2017, caduto per la terza volta nel giro di qualche mese in motorino sul viale che costeggia la Farnesina, cosparso di buche e con le radici dei pini che, sollevando l'asfalto, lo hanno trasformato in una succursale delle montagne russe del Luna Park dell'Eur, ho scritto un tweet che prendeva come esempio Roma ma che in realtà era un monito verso tutti quelli che governano le grandi città. Mi sono alzato con qualche escoriazione, ma anche consapevole eravamo all'imbrunire - che l'avevo scampata bella, visto che per cause a prima vista così banali c'è chi ci ha lasciato la pelle nella povera Capitale abbandonata a se stessa. E infuriato come non mai, invece, di immaginare le solite denunce contro il Comune che lasciano il tempo che trovano o imprecare alla luna, ho concentrato tutta la mia ira nei 280 caratteri di un tweet che, per brevità, non ti consente di dosare il giudizio come un articolo: «Percorro strade dissestate di Roma scrissi - e mi domando perché un'incapace, ignorante, demente abbia voluto fare il sindaco. È disonestà intellettuale».
Magari esagerai nell'usare qualche iperbole, figlia diretta della paura provata, dello stato emotivo del momento. Non feci però neppure il nome della Raggi perché, appunto, quella serie di imprecazioni erano una denuncia generale verso chi pensa che fare il sindaco di una grande città, sia un hobby, un dopolavoro e non richieda una parola magica che da quel giorno ho scritto in ogni articolo, ho ripetuto in ogni dibattito, cioè tanta competenza. Una parola che è risuonata spesso in questo anno di pandemia. Il punto è che se non sei onesto con te stesso e fai finta di essere capace di fare un mestiere che non sai fare, in questo caso la «politica» o meglio amministrare una città, c'è qualcun altro che paga per la tua disonestà intellettuale: come il medico insipiente di Benedetto Croce che assassina la gente. Non lo farà mai nessuno, ma se un giorno mi chiedessero in ginocchio di candidarmi per il Campidoglio, rifiuterei proprio per onestà intellettuale, proprio perché sono cosciente delle mie qualità e dei miei limiti. E non si tratta di retorica. In questo caso, ad esempio, le «buche», e le sventure che provocano, non sono la solita leggenda metropolitana. Tutt'altro. Basta leggere le cronache cittadine dei giornali romani, o riguardarsi uno studio dell'Aci del 2019 sugli incidenti che coinvolgono moto o scooter nella Capitale, provocati per la maggior parte direttamente o indirettamente dalle voragini che costellano il manto stradale e che contribuiscono in maniera preminente al bilancio di 30 morti (è la media annuale). Dico 30 morti.
Scrissi, mi sfogai e non ci pensai più, sicuro di essere in quella vicenda una vittima non certo un carnefice. E per la terza volta, essendo allergico alle carte bollate e non volendo far pesare sulle tasche della comunità possibili risarcimenti determinati solo dai limiti o dalla noncuranza di alcuni, me ne infischiai. Sottovalutai, però, il fatto che maneggiare Croce in certi ambienti può rivelarsi estremamente pericoloso. Parlare di «competenza» sul pianeta dell'«uno vale uno», è come parlar di corda in casa dell'impiccato. Così rimasi estremamente sorpreso, e insieme a me il mio avvocato Fabio Viglione, quando mi arrivò la querela della Raggi per un tweet in cui non era neppure nominata e su un argomento, le buche di Roma, assurto, come nel secolo scorso i sanpietrini del Vaticano, alla ribalta della cronaca nazionale. Ancor più rimasi colpito dal fatto che nelle udienze di mediazione davanti al conciliatore per la causa civile sempre per lo stesso tweet, la Raggi partecipasse in prima persona mentre io, a quanto pare più oberato di lavoro del sindaco di Roma, feci presenziare solo il mio avvocato. Ora, magari sarò io a sbagliarmi, ma da parte del primo cittadino della Capitale chiedere di processare una vittima delle «buche», cioè di un problema «irrisolto» che affligge l'intera comunità e su cui le polemiche si sono sprecate; o, ancora, su un argomento che se si avvia una ricerca sui social o sul web, ti ritrovi davanti un numero di pagine superiori alla somma di quelle che compongono l'Enciclopedia Treccani e l'Enciclopedia Universale Larousse, mi sembra davvero un'esagerazione. Se avessi dovuto querelare tutti quelli che hanno usato un linguaggio colorito a volte terribile - su tweet nei mie confronti, avrei intasato il tribunale di Roma per anni. E non dovrei dirlo a chi proviene da un movimento nato sul «vaffa-day», in cui la forzatura del linguaggio è stata sempre lo strumento più comune per delegittimare l'avversario: è come il bue che dice cornuto all'asino. Inoltre c'è un problema di sensibilità: è come se la Raggi, da sindaco, ignorasse del tutto i pericoli che corre, anche per le manchevolezze dell'amministrazione, chi per districarsi nel traffico congestionato della sua città (scelta peraltro meritevole perché non contribuisce ad aumentarlo), usa le due ruote.
Questo ragionamento di buonsenso, è stata probabilmente la ragione che ha spinto il Pm che si è occupato del caso a chiedere l'archiviazione. Poi, come avviene spesso nei labirinti della giustizia italiana, il Gip decidendo sull'opposizione della Raggi, gli ha imposto di chiedere il rinvio a giudizio. Così, nei paradossi del Belpaese chi rischia di pagare per essere caduto dal motorino per colpa di una buca della Capitale che il Comune, o chi per lui, non è riuscito a sistemare, è il cittadino.
A questo punto, se ci sarà il processo, varrà la pena di far testimoniare davanti al giudice tutti quelli, e sono tanti, che sono stati vittime di una disavventura che a volte si tramuta in disgrazia. Almeno i sopravvissuti.
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