Erano prevedibili, addirittura annunciati. Alla fine i primi attentati a Kabul sono avvenuti con il loro valore simbolico e il loro lugubre messaggio in codice: gli occidentali debbono lasciare il Paese, gli afghani debbono restare. Più o meno le posizioni talebane tradotte in attentati terroristici. I chierici di Allah sicuramente prenderanno le distanze da questi drammatici eventi, in maniera più o meno netta, ma districarsi tra i mille volti del terrorismo islamico, rispondere alla domanda se il nuovo regime afghano sia stato complice silente di queste azioni o meno, sarà pressoché impossibile. Dietro una sigla se ne nasconde sempre un'altra. Ci può essere l'Isis, o magari Al Qaida, o l'organizzazione di qualche fanatico armato dall'Iran. Per cui si rischia di finire in un vicolo cieco. Meglio restare, quindi, al messaggio in codice degli attentati che, appunto, sono coniugabili con la strategia dei talebani.
Del resto il regime di Kabul è stato sempre il brodo di coltura dei movimenti terroristici. È stato il regno di Osama bin Laden, mentre progettava l'attacco alle Torri gemelle, il suo quartiere generale. E al di là della tragedia di ieri, di un aeroporto bloccato dalla minaccia terroristica e con migliaia di profughi nel mirino di chi non vuole lasciarli andare, il vero punto interrogativo riguarda cosa sarà l'Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani: resterà uno Stato improntato al fanatismo religioso che si contenta di rimanere isolato dal mondo? O tornerà ad essere il rifugio prediletto dal terrorismo fondamentalista, perché alla fine non ci si può fidare dei talebani? Questo è il vero dilemma, perché se la prospettiva fosse la seconda, se gli attentati di Kabul fossero solo la prima dimostrazione che l'Afghanistan del futuro sarà una riedizione di quello di venti anni fa, dimostrando che una guerra, decenni di occupazione e miliardi di risorse investite non sono servite a nulla, scopriremmo nostro malgrado di essere seduti su una polveriera. Perché all'ostilità mai sopita verso l'Occidente, si aggiungerà una grande voglia di revanche del fondamentalismo islamico e l'ebrezza talebana per aver messo in fuga gli infedeli da Kabul.
Insomma, ci sono gli ingredienti per un cocktail letale, ma pure una lezione per gli Stati Uniti in primis e per i suoi alleati: il mondo non è un risiko dove si fa una guerra e, indipendentemente dalla situazione che si crea, si ritorna a casa, magari sull'onda degli umori dell'opinione pubblica, perché con il risiko ci si può anche far male. Magari la memoria e i simboli potrebbero anche aiutare a capirlo: tra due settimane ricorre il ventesimo anniversario dell'11 settembre, il giorno in cui gli Stati Uniti hanno scoperto di essere indifesi.
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