Sassi e minacce, è questa l’accoglienza che ci viene riservata in uno dei tanti accampamenti rom della Capitale. Siamo nel quadrante sud-ovest della città, a due passi dalla stazione ferroviaria della Muratella ed a poche centinaia di metri da uno dei primi campi nomadi di Roma. Stiamo parlando del quasi ventennale “villaggio della solidarietà” di via Luigi Candoni, dove la faida tra gruppi etnici ha spinto diverse famiglie a trovare rifugio altrove. E così, da qualche tempo, una trentina di persone si è accampata al di là del canneto della Riserva Naturale Tenuta dei Massimi.
Chi frequenta la zona ha notato la presenza di bimbi piccoli giocare a bordo strada già da alcuni mesi, ma la prova inconfutabile della nuova favela è arrivata solo a fine giugno, accompagnata da una coltre di fumo nero. Lucilla Bartocci, del Comitato Noi Muratella, ci mostra le fotografie dell’enorme rogo tossico che si è sprigionato qualche settimana fa dalla baraccopoli. È amareggiata e si definisce un “ostaggio” dell’arroganza dei nuovi “inquilini” della riserva che avvelenano l’aria obbligandola a respirare diossina. A nulla sono valse proteste e denunce. A causa della presenza di minori, infatti, lo sgombero viene continuamente rinviato.
Decidiamo di effettuare un sopralluogo, nonostante più d’un residente ci abbia già messo in guardia sui rischi. Anche un consigliere municipale del gruppo misto, Daniele Catalano, ha una storia da raccontare. “Quando sono andato lì per verificare la situazione – ci racconta – sono stato aggredito verbalmente e minacciato”. È riuscito comunque a scattare un paio di fotografie che, in poche ore, hanno fatto il giro delle pagine Facebook dedicate al quartiere.
Quando ci avventuriamo all’interno dell’area protetta è quasi mezzogiorno. Il caldo è torrido. Camminiamo nella sterpaglia essiccata, seguendo quel che resta del passaggio dei rom: indumenti abbandonati, materiale di risulta e qualche elettrodomestico incendiato. Finché non appare una donna, circondata da una decina di bambini. Spinge un carrello carico di bottiglioni d’acqua. È lei a guidarci fino al campo, un insieme di baracche, container e un paio di camper sperduti nella vegetazione. Ci racconta di essere arrivata dalla Bosnia negli anni Novanta e di aver vissuto in più di un accampamento. Prima a Tivoli, sulle rive del fiume Aniene, nella tristemente nota Frigo Valley e poi nel campo di via Candoni. È un vissuto difficile il suo, costellato di conflitti e soprusi germogliati all’interno della sua stessa comunità.
Tutto sembra andare bene fin quando accendiamo la videocamera e iniziamo a fare qualche ripresa. “Non potete riprendere”, ci sentiamo urlare alle spalle. Un’altra nomade si scaglia fuori dal suo container, raccoglie un forcone da terra e lo brandisce minacciosa: “Andate via”. Inutile tentare di ricordarle che “questo è un luogo pubblico”. Il dialogo s’interrompe definitivamente quando la donna istiga i bambini della baraccopoli a tirarci addosso delle pietre. Non resta che allontanarci, seguiti da una scia di minacce e improperi.
“Questo episodio conferma le preoccupazioni dei residenti, tutto questo è inammissibile”, commenta Catalano che si dice pronto “a scrivere al ministro dell’Interno per chiedere un censimento del campo”. Perché, aggiunge il consigliere, “bisogna capire chi sono queste persone e che diritto hanno di vivere qui”. È dello stesso avviso chi frequenta la zona.
“Io lavoro dodici ore al giorno e non riesco a mantenere la mia famiglia – ci confessa un operatore dello snodo ferroviario – e questi cosa fanno? Perché non li mandano via?”. E allora anche lui chiede che il tanto discusso censimento annunciato da Matteo Salvini diventi realtà, perché “sono davvero troppi e troppo prepotenti”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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