Nella politica degli stereotipi quando parla un (ex) comunista, emerge sempre irrefrenabile il richiamo della foresta. Per un sindacalista potrebbe essere il Berlinguer che sfidava la Fiat, per un vecchio militante emiliano la disciplina ferrea di partito. Per Walter Veltroni, un post comunista in carriera che non si è mai sentito un prodotto forgiato da falce e martello, è invece il ritorno all'habitat naturale del mondo del cinema. Forum e cineasti, documentari pallosi su cause terzomondiste, un milieu che va dall'impegno di Elio Petri alla parodia della Corazzata Potemkin di Fantozzi.
I social stanno ancora ribollendo per l'uscita dell'ex segretario del Partito democratico, una volta tanto in vena di provocare (e non includere) nel salottino radical chic di Fazio Fazio a «Che tempo che fa» su Rai 3.
Ancora oggi leader di riferimento della sinistra cinematografica, l'ex sindaco di Roma ha protestato (con ragione) per la distruzione della cultura disposta dal governo dove spadroneggia il Pd che lui fondò. Giacca scura e camicia bianca kennediana button down, Veltroni si è posto una domanda da solo, tra i battimani dello studio: «È giusto autorizzare le messe, con tutto il rispetto per le messe, e non autorizzare cinema e teatri nei quali non c'è stato alcunché»?.
Ok cinema e teatri, ma perché additare l'apertura delle messe quasi come un favoritismo, una stortura da denunciare se non un'attività complementare del mondo artistico? Che cosa c'entra, Walter? E stavolta il suadente buonista, doppiopesista, cerchiobottista e ma-anchista è riuscito a demolire la sua immagine di saggezza e tolleranza per porsi come un «cristianofobo», se non un ferrovecchio che ha perso la «comprensione delle dinamiche del Paese». Forse non aveva fatto i conti con la dittatura dei social, dove bastano una battuta malriuscita o una mezza gaffe per franare nella considerazione generale. Proprio a lui che in epoche meno frenetiche era stato graziato dall'opinione pubblica sull'abiura del suo credo politico («non ero mai stato ideologicamente comunista») o sull'alternanza paraculesca di tifo calcistico tra la Juventus (squadra del cuore) e la Roma (quando era sindaco della Capitale».
La scivolata sulle messe potrà essere dimenticata in due giorni come trasformarsi in una fastidiosa macchiolina sul curriculum quasi immacolato di un 65enne sempre giovane che nel 2022 entrerà sicuramente nella rosa dei candidati alla presidenza della Repubblica.
Nel 1994 da direttore dell'Unità, nella nuova Italia berlusconiana, allegò i Vangeli al quotidiano in edicola. Passò pure per papista per avere intitolato la Stazione Termini a Giovanni Paolo II.
Questo ovviamente da iper laico tormentato che almeno quindici anni fa «credeva di non credere». Oggi invece crede che il cinema valga bene una messa. E in sala scatta dal pubblico la battuta da avanspettacolo: «Almeno è più movimentata di un suo documentario».
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