Il sindacato che si fa partito

Ci sono stati momenti nella storia del sindacato in cui delle sconfitte, dei segnali eclatanti di insofferenza dell'opinione pubblica lo hanno riportato con i piedi per terra, lo hanno rimesso in contatto con la realtà.

Il sindacato che si fa partito

Ci sono stati momenti nella storia del sindacato in cui delle sconfitte, dei segnali eclatanti di insofferenza dell'opinione pubblica lo hanno riportato con i piedi per terra, lo hanno rimesso in contatto con la realtà. Avvenne con il referendum sulla scala mobile, in cui la linea massimalista portata avanti non solo dalla Cgil ma anche da Enrico Berlinguer determinò una svolta nelle relazioni sindacali. E, ancora, con la marcia dei 40mila colletti bianchi di Torino che fece scoprire alle organizzazioni dei lavoratori che la società era ben più complessa di quanto non fosse nel loro immaginario.

Ebbene, il fallimento dello sciopero generale di giovedì dovrebbe aver svelato a Maurizio Landini che il Paese post-covid è ben diverso dal precedente. Dopo due anni trascorsi nella paura e con la quarta ondata che incombe, la gerarchia dei bisogni delle persone è stata rivoluzionata e le piattaforme che convincevano ieri, non sono più condivisibili oggi. Tantomeno lo strumento da utilizzare nelle rivendicazioni, lo sciopero, appunto, che in questa fase può apparire inopportuno. È successo ai partiti ed è fatale che capiti anche al sindacato. La Cisl lo ha capito, almeno in parte, le altre due confederazioni no.

Ora, come avviene spesso, i momenti di crisi, gli intoppi, le sconfitte (perché di questo si è trattato al di là della retorica un po' stantia delle piazze piene) possono essere un'occasione per ripensarsi, per rendersi conto di ciò che è cambiato in questi due anni. Insomma, possono avere pure una funzione positiva. Almeno questa è la logica che dovrebbe ispirare un sindacato che per definizione dovrebbe coltivare un legame profondo con la società. Solo che dai ragionamenti di Landini, dalla filosofia che lui stesso ha messo alla base dello sciopero, sorge il dubbio che non sia così, che la Cgil, soprattutto, possa cedere in una tentazione mai sopita nella testa dei suoi dirigenti, quella di trasformarsi in partito. In passato l'organizzazione di Landini ha sempre fiancheggiato i partiti di sinistra, dal Pci, al Pds ai Ds, financo l'Ulivo. Ma ora non riesce più ad incidere come un tempo, visto che i suoi interlocutori naturali, da Leu di Bersani al partitino di Fratoianni, contano poco. E allora la tentazione si è fatta più forte. Del resto Landini non ha problemi a dire che «fare lo sciopero è una scelta politica». Di fatto, anche dal punto di vista lessicale, è la rottura di un tabù.

Solo che per il sindacato una scelta del genere potrebbe rivelarsi un errore fatale. Al mondo d'oggi tutti vogliono fare un partito. Addirittura un movimento scalmanato come quello dei no-vax accarezza questa ambizione.

Solo che di partiti ce ne sono fin troppi. Ciò che conta sono i programmi. E purtroppo il programma della Cgil - questo è il punto su cui Landini dovrebbe riflettere - è ciò su cui è fallito lo sciopero di giovedì scorso. Un fallimento politico.

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