Il superpianista e gli smartphone: «Rubano l'anima è l'ora di vietarli»

Il superpianista e gli smartphone: «Rubano l'anima è l'ora di vietarli»

Mi hanno chiesto in molti, dopo il concerto di venerdì scorso nella mia Celano, perché abbia usato tanto energica seppur affettuosa fermezza nel riprendere chi lo registrava col telefonino senza esservi autorizzato.

L'ho fatto perché un concerto è il momento che solo svela l'interprete al suo pubblico. Il momento unico, profondamente vero e per ciò fragile, che snuda l'intimo di chi suona in un soffio di solitudine e comunione insieme. Registrarlo, registrare questo disvelarsi se non richiesti a farlo, è dunque un atto di pura scortesia. È lo sbirciare dal buco della serratura sul cuore altrui. Chi vuol esserci, vada. Applauda o no. Però, salvo eccezioni, non ha diritto alcuno né necessità d'assistervi oltre e in ogni modo. Così per chi non c'era. Anche il nostro tempo della connessione continua deve rispondere alla buona educazione, le cui regole non consentono che chiunque faccia sempre ciò che vuole. È uno spazio fantastico, la moderna virtualità; ma come il reale andrebbe vissuto nel rispetto di tutti per ciascuno, assoluto, che è poi la forma più alta di rispetto di sé. Suonare è il gesto d'amore che segue e serve l'opera interpretata, dono infinito, d'amore anch'essa, del genio vero che è il suo compositore. Il suo ascolto silente è pegno di questo gesto e dello stesso amore, che non esiste senza moti reciproci dell'anima. Amor, ch'a nullo amato amar perdona. Prima del concerto avevo detto queste cose.

Ma forse chi ha lo sguardo basso al telefonino non ascolta ciò che al telefonino comanda di fissare.

È l'incapacità di vedere e di sentire d'un mondo che pure dispiega orecchie e occhi ovunque. Il paradosso triste dell'Occidente d'oggi alla fine del tramonto, e all'arrivo della notte.

Nazzareno Carusi,
pianista e concertista

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