Tanzi pentito e malato non fa pena a nessuno

In aula col sondino nell’indifferenza: Tanzi è magrissimo, malato, sta pagando. Ma non commuove Forse perché vediamo in lui le meschinità del vicino di casa

Tanzi pentito e malato non fa pena a nessuno
Il profilo resta quello di un piccolo rapace o di un prete spretato che non rinnega i suoi er­rori anche quando sussurra «mi pento» e «perdono», perché certe cadute sono il sale dell’uomo, animale meschino, senza gran­dezza. C’è qualcosa inCalisto Tanzi che ti fa male. Lo capisci quando in tribunale si volta verso di te, verso il pubblico, scavato, il son­dino nel naso e il cerotto bianco a svilire il volto. È un vecchio, Tanzi. Un vecchio mala­to. Eppure c’è qualcosa che non scatta, non arriva. Non riesci a provare pietà. Nien­te, e di questo ti vergogni. È come se la colpa fosse tua, non sua. Sta di fatto, però, che questo vecchio malridotto non provoca alcun sentimento di pietas . Non è per rabbia o rancore, neppure per giustizia. Non è questo il proble­ma. Si può provare pietas perfino per Saddam Hussein con la cor­da al collo e la barba da derelitto o per un Gheddafi con gli occhi sbarrati. C’è chi va in empatia per il romanzo criminale della Magliana o sorride alla sorte di quel bauscia di Vallanzasca. Ma su Tanzi, no. Questo imprendito­re che viveva di furbate invece non commuove e non emozio­na. Come ti dice un amico: «E per­ché dovrei avere pietà? Non sta neppure in carcere. Ha fatto car­ne di porco. Ha voluto esagera­re... ».

Il vecchio Calisto non si è ac­contentato della sua ricchezza. C’è il ricordo di quel crac finan­ziario, con i bilanci falsi e le socie­tà fittizie, che è caduto come una disgrazia sulle illusioni e le inge­nuità dei piccoli risparmiatori, che sono falliti insieme al fallito. Lui con la sua squadra di calcio e le ville e i miliardi, loro con il gruz­zolo messo da parte. Come può fallire la Parmalat? E si sono fida­ti. Tanzi ha risposto con faccia to­sta, come se avesse guai più gran­di per preoccuparsi delle miserie di chi si improvvisa finanziere. È chiaro che per le vittime questo menefreghismo non ha pietà. Ma non è solo questo.

C’è qualcosa di più in questo vecchio malandato che crea di­stacco, cinismo. La storia di Tan­zi è senza grandezza. È senza pas­sione.

Chi è Calisto? Cosa è sta­to? È uno che fa impresa convin­to che l’importante sia conosce­re le persone giuste. Si affida ai politici, ai partiti, soprattutto la grassa Dc, sempre pronta al co­stume del do ut des , aiùtati che Dio ti aiuta. Tanzi apre uno stabi­limento a Nusco per compiacere De Mita e di De Mita si vanta e da De Mita riceve. Non c’è però solo Ciriaco o il resto della Dc. Gli oriz­zonti di Tanzi sono larghi, vanno da sinistra a destra, dal vecchio al nuovo, perché in Italia non si sa mai ed è sempre bene avere una riserva se cambia un santo in paradiso.

È tipico Tanzi, tanto, parec­chio italiano, un terrone del Nord, che sta lì a mostrare che un certo «nuschismo» non mette ra­dici solo a Nusco. È uno che sem­bra camminare al di sopra delle sue possibilità, come se la fortu­na gli avesse già regalato il possi­bile e quando le cose comincia­no ad andare male, ben prima de­gli anni Novanta, si arrangia, na­sconde, fa la furbata, ma anche questa passa più come un’aggiu­stata mediocre che come truffa leggendaria. È il gioco delle tre carte di un riccone di Collecchio che spera di farla franca e lascia in giro un buco di quattordici mi­liardi di euro. Ecco il sapore del fallimento Parmalat: i numeri so­no grandi, i personaggi no.

Calisto forse la pietà non la cer­ca nemmeno. Nel suo sguardo c’è solo la voglia di essere lascia­to in pace. Il problema è tuo. È no­stro. Siamo noi che vorremmo provare per questo vecchio che si trascina davanti al tribunale qualcosa di più dell’indifferen­za. Vorremmo dire: sta pagando la pena, ma quel corpo scarnifica­to è un colpo al ventre. Queste fo­to, che passano su siti e agenzie, dovrebbero farci vergognare, con una mano andrebbero scan­sate, per esclamare «eh, che dia­volo ». Niente. Tanzi è normale. Tanzi si presenta davanti al suo giusto destino.

Anzi, semplice­mente, chi se ne frega. La colpa è nostra, appunto, non sua. È che forse quest’uomo che ha traffica­to e nascosto miliardi è il vicino di casa. È lo specchio di quelle meschinità in cui nessuno si vuo­le rivedere.

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