Dio è morto, e neanche il Pd se la passa bene. Si scopre che non bastava archiviare Matteo Renzi, chi l'avrebbe detto. La fragorosa débâcle elettorale segna un punto di non ritorno: il brand non funziona, insistere è accanimento contro gli elettori. Cittadini (...)
(...) incolpevoli, talmente insoddisfatti della proposta dem da remare verso lidi leghisti. Il destino del marchio Pd non è solo materia per gli esperti di marketing, la questione riguarda la sostanza di un progetto che pare essersi definitivamente arenato, kaputt. Il Pd è giunto al capolinea: prego, scendere. In nome di un basilare principio di responsabilità, gli anglosassoni la chiamano accountability, è chiamata a scendere dal bus in panne la torma di dirigenti dem che in questi mesi ha scandito, in ogni luogo, il seguente teorema: perse le elezioni del 4 marzo, le magnifiche sorti e progressive della sinistra italiana si risolleveranno attraverso il prepensionamento di Matteo Renzi (meno ti fai vedere, meglio è); una rinnovata attenzione al «bisogno di protezione» e alla «lotta alle disuguaglianze» (Piketty si porta sempre); l'urgente necessità, sentite bene, di «tornare sui territori» (basta volteggiare nell'aere).
Slogan vuoti, frasi trite e ritrite, formidabile escamotage per schivare la benché minima assunzione di responsabilità da parte di un ceto dirigente che, esclusa la pazza avventura di Renzi e della sua scalata interna da outsider, è rimasto, negli anni, graniticamente identico a se stesso. Se Renzi si dimette anche quando non è tenuto, a poche ore dal big bang delle amministrative il segretario reggente Maurizio Martina commenta: «Dobbiamo cambiare tantissimo, nelle persone e nelle idee».
È la solita storia: il cambiamento va bene se tocca gli altri, mai se stessi. Le idee camminano sulle gambe delle persone, accoglierne di nuove significa dare spazio a chi è in grado di elaborarle e incarnarle. Il «teorema Martina» (non solo il suo, beninteso) si è dimostrato esiziale. Per il Nazareno si profila il destino di rue de Solférino: l'estinzione dei socialisti francesi. La ragione è politica: i populisti offrono soluzioni sbagliate a problemi reali. Se non si parte da qui, non si va lontano.
Il correttismo politico ha impedito di affrontare in termini concreti e pragmatici il tema dell'immigrazione che decide il voto degli elettori ormai in tutta Europa. Ipnotizzati dalla retorica dell'accoglienza indiscriminata e dell'umanitarismo ipocrita, i maggiorenti dem hanno lasciato campo libero al più retrivo repertorio sfascista. Si gridava a un fantomatico pericolo neonazista in una nostalgica piazza partigiana senza badare alla voragine che si apriva sotto i piedi.
Non è un caso che Marco Minniti, punta di diamante del governo Gentiloni, si sia dovuto guardare dal fuoco amico, ancora prima che dagli avversari, mentre metteva in campo un pacchetto di misure che ha ridotto gli sbarchi dell'80 per cento. Il congresso Pd si terrà, pare, all'indomani delle elezioni europee 2019. Ma, in fin dei conti, importa davvero se e quando si terrà l'ennesima assemblea dem? A chi interessa contendersi la leadership di un corpaccione decrepito?
Dopo una batosta elettorale così clamorosa, ci si aspetterebbe il passo indietro del reggente Martina con immediata convocazione di un'assise straordinaria che discuta del futuro del Pd includendo, tra le alternative sul tavolo, l'opzione «scioglimento».
Si assiste invece all'ennesima messinscena: cambiamo i volti ma teniamoci i posti. Per i prossimi appuntamenti, fa sapere Martina, si lavora a «un campo progressista di centrosinistra, con il Pd al centro». Una riedizione dell'Ulivo, insomma. Un glorioso futuro, alle spalle.Annalisa Chirico
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