L'assoluzione del ministro Massimo Garavaglia e dell'ex senatore Mario Mantovani non interesserà a molte prime pagine (certa stampa è abituata a rimarcare le indagini e le condanne non definitive ma non i proscioglimenti), figurarsi quella di una persona assolta nel medesimo processo che non ha ricoperto o che non ricopre una carica politica spendibile per il sensazionalismo. Con le cronache sulla Giustizia, spesso, funziona così.
Giacomo Di Capua ha meno di venticinque anni quando, poco dopo aver terminato l'Università a Pisa, inizia a lavorare con Mario Mantovani. Da giovane forzista, Di Capua viene poi eletto al consiglio comunale di La Spezia e, in sincrono o quasi, inizia a lavorare per l'ex parlamentare forzista. Mantovani, da eurodeputato, ricoprire poi l'incarico di sottosegretario alle Infrastrutture. E il suo collaboratore lo segue a Roma per diventare il vertice della segreteria. La carriera prosegue.
"Avevo appena ventotto anni ed ero già dirigente al ministero. Poi, quando il senatore viene scelto come Assessore alla Sanità in Regione Lombardia, divento il suo capo segreteria. Svolgo attività istituzionale sino al 13 ottobre del 2015 quando sei finanzieri entrano alle sei del mattino nel mio bilocale, ben trentadue metri quadri dove eravamo accampati la mia compagna, mio figlio di venti giorni ed io. Stavamo cercando casa: quella che non sono riuscito a comprare. E sa perché? I soldi sono serviti per la difesa processuale".
Di Capua viene portato a San Vittore, dove trascorre una ventina di giorni. Ci racconta oggi di aver puntato tutto sulla verità: "Ho detto al Pm - quello che insisteva ad attribuire responsabilità a Tizio e a Caio - che sarei voluto andare a casa al più presto, che mio padre mi aveva insegnato a dire la verità e che non sarei stato disposto ad infamare nessuno". Giacomo Di Capua esce da San Vittore dopo ventuno giorni e trascorre sei mesi ai domiciliari. Sin dal principio, avendo letto tutte le carte mentre si trova in carcere, è certo di poter dimostrare la sua totale innocenza. E così, in fin dei conti, sarà.
Rimane senza lavoro per parecchio tempo e riesce ad affrontare alcune conseguenze psicologiche grazie "alla forza della famiglia ed agli amici, cui volevo dimostrare la mia innocenza. Ma il processo più duro - dice - è stato quello di mio padre. I miei, in carcere, mi hanno abbracciato subito ma si sono anche detti vogliosi di capire come stessero le cose". A questo punto, parte quella che Di Capua chiama "riscossa". Il ragionamento è più o meno questo: essendo riuscito a convincere il padre della sua innocenza, è possibile farlo anche con i giudici nel processo. E dunque ottenere Giustizia.
"Abbiamo cercato di essere lucidi, affrontando un processo di primo grado durissimo, al termine del quale sono stato assolto per due capi d'imputazione su quattro". Poi arriva l' altra assoluzione: quella di queste ore, che per Di Capua corrisponde "al primo giorno di primavera" dopo sei anni e più di calvario. Il primo pensiero? "Ho ritrovato fiducia nella Carta Costituzionale. Ho pensato che i padri costituenti hanno fatto bene a prevedere più gradi di giudizio. E poi ho visto la bandiera italiana: ho sempre sperato di fare il dirigente pubblico nella mia vita. E quell'arresto mi aveva fatto perdere molta fiducia nel mio Paese".
Di Capua chiosa dicendo che adesso
spenderà del tempo a spiegare ai suoi figli cosa gli è successo e il perché del nervosismo e del dover andare via presto di mattina. Oggi ha quarant'anni e ha speso "tutti" i suoi risparmi per difendersi.
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