La vittoria di Riina sullo Stato

Quanto conta ancora Riina? Che soldati ha ai suoi ordini, quali leve è in grado di muovere nel mondo del crimine organizzato?

La vittoria di Riina sullo Stato

"Andatelo a prendere e riportatelo in saletta!", tuona il giudice quando lo informano che Totò Riina si è allontanato dalla saletta del carcere di Opera per andare a mangiare e a fare la sua terapia. Le guardie penitenziarie eseguono. Il Capo dei Capi viene rintracciato, da qualche parte del supercarcere, e riportato sotto gli occhi delle telecamere, nella stanzetta destinata alle videoconferenze che da anni è la sua unica finestra sul mondo. Solo in quel momento, lo Stato fa risentire la sua voce grossa. Perché per il resto quella che va in scena ieri e oggi a Milano è inevitabile leggerla come la vittoria del Padrino. La vittoria di un uomo ormai vecchio, ottantatrè anni compiuti, rinchiuso da vent'anni nel pozzo del 41 bis, il regime di massima sorveglianza. Ma che ancora si concede la libertà più grande di tutte: quella di fare paura. Quanto conta ancora Riina? Che soldati ha ai suoi ordini, quali leve è in grado di muovere nel mondo del crimine organizzato? Poche o nulle, si immaginerebbe: non può comunicare con l'esterno, ogni sua parola è registrata e archiviata. Proprio questo obiettivo, recidere i suoi contatti con la realtà, è la giustificazione giuridica del regime duro cui viene sottoposto, e che (astrattamente parlando) ha poco a che fare con il trattamento rieducativo che dovrebbe ispirare il trattamento in carcere secondo la Costituzione. Riina è, o dovrebbe essere, un uomo solo. Eppure ieri e oggi, in questi pochi chilometri che separano il carcere di Opera dall'aula bunker di Ponte Lambro, si celebra il suo trionfo.

Sono bastate poche parole pronunciate qualche settimana fa da "U Curtu" durante l'ora di socialità, in cui Riina - sapendo perfettamente di essere ascoltato - diceva di volere morto il pm Nino Di Matteo, per mandare in tilt lo Stato. A Milano l'intero carrozzone del processo Stato-Mafia si è dovuto trasferire per interrogare Giovanni Brusca, il pentito più importante di questo processo: che è rinchiuso al reparto "protetto" di Rebibbia, ma che evidentemente non poteva essere portato a Palermo per motivi di sicurezza: e anche questa è una cautela che odora di resa. Il pm Di Matteo, che pure non è un pavido, ha rinunciato alla trasferta a Milano. "Mancavano le condizioni di sicurezza", ha detto il suo capo Francesco Messineo, anche se dal ministero degli Interni hanno smentito di avere dato indicazioni in questo senso. Chi ha deciso? E perchè? Altro piccolo mistero all'interno dei tanti misteri del processo Stato-Mafia, sulle trattative che nel 1992 e 1993 avrebbero sancito la fine della strategia stragista di Cosa Nostra. Sta di fatto che Riina è lì, minuto e pallido, ma apparentemente in piena forma, a Opera: nell'aula bunker di Ponte Lambro la sua immagine arriva rimbalzata dai monitor, minuscola. Ma la sua presenza domina l'aula.

Andrebbero contate, le volte in cui il pentito Giovanni Brusca lo nomina nelle lunghe ore della sua deposizione. Cento, duecento? Tutto ruota intorno a lui, al "viddano" di Corleone asceso a raffiche di mitra al vertice della commissione regionale di Cosa Nostra, la Cupola. Fu lui, dice Brusca, a decidere l'attacco allo Stato: prima alla corrente andreottiana, per punire Salvo Lima e i suoi referenti romani di non avere "aggiustato", ovvero neutralizzato, il primo maxiprocesso. Così arrivarono le stragi di via Capaci e via d'Amelio. E così, dice Brusca, doveva arrivare il massacro dei carabinieri allo Stadio Olimpico. "Dobbiamo dargli ancora un colpetto", avrebbe detto Riina, perché lo Stato esitava ancora a scendere a patti. "L'autobomba doveva essere riempita di bulloni e pezzi di ferro,dovevano morire cinquanta o sessanta carabinier", dice Brusca. Poi la strage non si fece. Di lì a poco, Riina venne catturato. Lo Stato si era finalmente deciso a dargli la caccia. O, dentro Cosa Nostra, qualcuno aveva deciso che la follia stragista del "viddano" stava portando alla rovina l'organizzazione. Questo è in fondo il tema del processo: se trattativa vi fu, fu trattativa a senso unico. Il 41 bis, le leggi antimafia, non vennero modificate. Caddero nella rete inveve Riina e i suoi, uno dopo l'altro. E alla fine cadde anche Bernardo Provenzano, che Brusca descrive come il leader dell'ala morbida, e che anche uno dei pm venuti da Palermo chiama "il pompiere". E su cui da sempre incombe il sospetto di avere venduto Riina allo Stato.

Ma se Provenzano oggi è un relitto umano, sull'orlo della demenza, tale da suscitare la clemenza persino della procura nazionale antimafia, Riina è ancora solido, lucido. Sa che morirà in carcere. Sa che la sua sconfitta è negli atti, e che con sè ha trascinato nel buio del 41 bis una intera generazione di soldati e di boss dell'organizzazione.

Ma in questi giorni, vedendo lo Stato spaventarsi alle sue parole, sotto il suo sguardo da squalo, forse sarà vagata l'ombra di un sorriso. Ma la vera soddisfazione per lui, qualunque cosa sia successa in quel biennio terribile, probabilmente è oggi vedere le istituzioni dello Stato accapigliarsi in un regolamento di conti.

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