N eanche il tempo di essere approvato in Consiglio dei ministri e il decreto che rinvia le elezioni amministrative miete già la sua prima vittima. Nelle poche ore che separano l'integrazione dell'ordine del giorno della riunione di Palazzo Chigi con il provvedimento in questione e il suo via libera definitivo, infatti, Nicola Zingaretti si arma di tastiera e su Facebook annuncia le sue dimissioni da segretario del Pd.
Non che tra i due eventi ci sia un nesso diretto e conseguenziale, considerando anche che il rinvio era ampiamente previsto e finanche preventivamente concordato da Mario Draghi con i partiti. Non c'è dubbio, però, che la pietra tombale sulla corposa tornata amministrativa che era in programma in primavera congela di fatto la politica per almeno sette mesi. E toglie a Zingaretti anche l'ultima possibilità di legittimare nuovamente la sua leadership nel Pd dopo la disastrosa gestione della crisi di governo del Conte 2. Gli errori sono stati infatti macroscopici. Dal sottovalutare la perseveranza di Matteo Renzi, all'illudersi che tutto si sarebbe potuto risolvere con la pesca miracolosa di qualche senatore in offerta ai saldi della Befana (pesca, peraltro, a cui non ha partecipato attivamente un pezzo importante del suo partito). Nei giorni successivi al naufragio del Conte 3, Zingaretti si era illuso di potersi rimettere in pista già ad aprile, grazie alle elezioni amministrative. Si sarebbe dovuto votare in 1293 Comuni, ma - soprattutto - in sei capoluoghi di provincia: Bologna, Milano, Napoli, Roma, Torino e Trieste. Le prime tre, partite che il Pd avrebbe dovuto portare a casa senza troppi problemi. Come pure la sfida sotto la Mole. Più complicata la questione capitolina, ma molto sarebbe dipeso dal profilo dello sfidante di Virginia Raggi. Insomma, c'erano ampi margini per potere assistere a un Pd sostanzialmente vittorioso.
Invece, niente. I dati sulla pandemia impongono il rinvio: si voterà tra il 15 settembre e il 15 ottobre, fra ben sette mesi. Così, per disinnescare il fuoco amico, Zingaretti è costretto a sparigliare. Secondo molti, con l'obiettivo di mettere all'angolo la fronda interna e, magari, ottenere nuovamente il sostegno dell'assemblea del Pd convocata per il 13 e 14 del mese. Sarebbe quella legittimazione politica che avrebbe voluto trovare nel voto di primavera.
Ma non è solo Zingaretti l'unica vittima di questa sospensione necessaria della politica. Senza una campagna elettorale alle porte, infatti, sarà dura anche per Giuseppe Conte lanciare il suo ritorno sulla scena come leader di quel che resta del M5s. L'operazione, infatti, poteva avere un senso con l'ex premier a fare da nume tutelare alla Raggi, magari accompagnandola in una sfida che comunque non è scontata. Ma senza comizi, senza appuntamenti pubblici o confronti, l'ex premier si troverà davanti una strada molto più stretta. Un problema simile potrebbe averlo per certi versi anche Matteo Salvini. Che, libero da impegni di governo, avrebbe dedicato anima e corpo a un campagna elettorale per città chiave come Milano, Roma, Torino o Napoli. Certo, il leader della Lega - come sta dimostrando in questi giorni - non ha bisogno di alcun pretesto per stare sulla scena pubblica, ma quello del voto sarebbe evidentemente stato lo scenario più idoneo. Così pure per Giorgia Meloni, visto che Fratelli d'Italia - l'unico partito all'opposizione del governo Draghi - avrebbe trovato nella campagna elettorale il palcoscenico perfetto per sostenere i suoi argomenti.
Tutto congelato, invece. Con la politica che resta in quarantena fino a ottobre (l'ipotesi è un election day il 10 ottobre, data in cui si voterebbe anche in Calabria).
Politicamente si tratta di una vera e propria era geologica, nella quale potrà succedere tutto e il suo esatto contrario. Con grandi spazi di manovra al centro e l'idea di mettere in calendario una riforma elettorale in senso proporzionale.
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