Nouvelle cuisine, cucina fusion, cucina molecolare, finger food: termini che fino a non molto tempo fa ai più suonavano esotici e perfino esoterici, sono ormai penetrati nell'immaginario popolare e nel lessico quotidiano; e mentre in tv si cucina a tutte le ore, gli chef superstar sono già autorità indiscutibili che sfornano non solo piatti prelibati ma anche ricettari bestseller.
Fin da quando sono esistite le corti, sono esistiti i sontuosi banchetti per le élite che circondavano il sovrano (e fuori c'era sempre il Diogene di turno che li schifava). Dunque da sempre il cibo ha avuto un valore simbolico e l'alta cucina ha esercitato una funzione di status symbol come tale conobbe il suo apice in epoca romana e rinascimentale o nello sfarzo della corte di Versailles. Soltanto negli ultimi decenni però la cucina è assurta al rango di arte, quindi non più solo bisogno fisiologico o sfoggio di potere, ma espressione dell'ingegno di un artista, lo chef.
C'è stato un momento preciso in cui l'arte culinaria ha fatto il suo ingresso ufficiale nel mondo dell'arte: nel 2005, quando Ferran Adrià (il grande chef del ristorante catalano El Bulli) espose le sue creazioni di cucina molecolare a Documenta Kassel, fra le più prestigiose fiere d'arte contemporanea del mondo. La cucina molecolare (o cucina tecnoemozionale, come la chiama lui) è il non plus ultra della sperimentazione gastronomica, e si basa su raffinate formule chimiche; fino a quel momento, la cucina rientrava nella categoria dell'artigianato, anche se di alto livello. La moda ha conosciuto lo stesso destino prima di essere promosso al grado di artista, il fashion designer ha dovuto aspettare gli anni Ottanta, fino ad allora era stato solo un bravo sarto. Parrucchieri e truccatori stanno oggi percorrendo la stessa strada, appunto il passaggio del loro mestiere dallo status di artigianato a quello di arte. Ce n'è voluto di tempo per arrivare dai panciotti multicolori del futurista Depero al sacrosanto eccesso del vestiario di Lady Gaga...
Se il riconoscimento a Ferran Adrià costituisce un punto d'arrivo, c'è però anche un preciso inizio in questa storia: il Manifesto della cucina futurista (1931) a firma di Filippo Tommaso Marinetti e Fillia. I manifesti per i futuristi, lungi dall'essere dei semplici vademecum su come rivoluzionare le varie arti, erano vere grida di battaglia in cui lo splendore geometrico della poesia marinettiana si esprimeva al meglio. Essi contenevano gli indirizzi teorici e tecnici per una ricostruzione futurista dell'universo. Tale ricostruzione prevedeva una pari dignità di tutte le discipline artistiche, la sperimentazione totale all'interno di ognuna di esse e la loro continua interazione (quella che oggi si invoca sempre e la si chiama «contaminazione»). Quindi in questi manifesti vediamo in nuce quello che sarebbe stato il percorso delle arti fino ad oggi e oltre, dopo la necessaria opera di demolizione di ogni idea data e di qualsiasi conformismo filisteo da parte dei futuristi tutto ciò andrà inevitabilmente a scontrarsi con quella che Marinetti con un delicato eufemismo chiamava «la lenta comprensione del popolo». Ad esempio il manifesto L'arte dei rumori (1913) dice che il rumore generato dai macchinari industriali è suono e va inglobato nella musica; Luigi Russolo mise in pratica questa sua geniale intuizione inventando l'intonarumori: al suo esordio il pubblico di Modena lo sommerse di ortaggi e molti chiesero alle autorità di farlo internare in manicomio, ma molti decenni dopo ci penseranno Karlheinz Stockhausen, Brian Eno e soprattutto Lou Reed con il suo Metal machine music a vendicarlo...
In questa ferma volontà di estetizzare tutto l'esistente non potevano non rientrare l'abbigliamento e l'alimentazione, da cui quindi il tentativo di nobilitare l'opera di sarti e cuochi.
Tornando al Manifesto della cucina futurista, l'attacco frontale alla tradizione qui non poteva essere che contro il piatto nazionale per eccellenza: la pastasciutta, con i suoi succulenti condimenti. La sua pesantezza annebbia la mente, e a causa della laboriosa digestione, rende il passo meno spedito e la persona meno dinamica. Anche qui poi si consiglia una sperimentazione a tutto campo che anticipa l'odierna cucina fusion (come il mix tra dolce e salato, o tra carne e pesce) e una maggiore attenzione alla presentazione e all'estetica delle portate. Qualche anno dopo la pubblicazione del manifesto, promossa da Fillia e Marinetti, ebbe luogo una memorabile cena futurista che intendeva rovesciare alla radice il tradizionale ordine gastronomico: si iniziò col caffè e si finì con gli antipasti. In questa occasione il popolo non protestò, si limitò al compatimento.
Si sarà dunque notata una qualche affinità tra la cucina futurista e quella orientale, e per vie traverse in epoca più recente esse verranno in qualche modo a coincidere, quasi ad incrociarsi. Infatti da un punto di vista non solo culinario ma anche estetico, l'irrompere sulla scena globale della cucina giapponese a partire dagli anni Novanta ha decisamente cambiato le cose, indirizzando la gastronomia di tutto il mondo verso una più meditata presentazione dei piatti (o per meglio dire, una sorta di generale presa di coscienza di come il cibo può essere «posizionato»). Ma perché l'estetica delle portate è così importante nella cucina nipponica, e mai casuale? Secondo lo scintoismo, religione nazionale giapponese, l'anima risiede nello stomaco (infatti l'obi, la fascia del kimono, simbolicamente protegge lo stomaco); da qui l'estrema importanza di tutto quello che si ingerisce, come lo si ingerisce e da dove. Ciò spiega non solo il complesso rito della cerimonia del tè, ma anche la bellezza dei piatti e delle scodelle nonché la disposizione del cibo nei piatti stessi, che va curata come si cura un giardino zen o come i fiori nell'ikebana.
Il mangiare, o meglio «degustare» insieme è oggi diventato un rituale così importante che alle inaugurazioni delle mostre d'arte spesso ci si concentra più sul finger food o sul grand buffet che sulle opere.
È in quest'ottica che si presentò come estremamente interessante l'inedita contaminazione tra arte e cucina proposta dagli chef Savigni, Rampinelli e Pappalardo del progetto Sauce and life, che esordì qualche anno fa a Bologna nell'ambito di Artefiera e che voleva imporsi come nesso permanente tra arte e cucina: la loro missione era interpretare un'opera d'arte attraverso l'ideazione di ricette ispirate all'opera stessa, pensate per assaporarla; ricette che richiamavano le caratteristiche dell'opera, tramite i colori, le forme e le sensazioni che essa poteva suscitare. Iniziative come queste sono solo un ulteriore passo in avanti di quel lungo, affascinante percorso iniziato nel 1931 col Manifesto della cucina futurista e che ancora è suscettibile di traiettorie e sviluppi inediti.
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