Ecco cos'è il fascismo, quello vero

A cento anni dalla Marcia su Roma. Lo storico Beniamino Di Martino: un "capitolo del socialismo e della mortificazione dell'individuo"

Ecco cos'è il fascismo, quello vero

La riflessione sulla natura del fascismo è coeva al fenomeno stesso. Già a partire dall'inizio degli anni Venti, per esempio, un gruppo di politici e di intellettuali di formazione diversa da Guido Bergamo a Cesare Degli Occhi, da Dino Grandi a Mario Missiroli e via dicendo si interrogarono, sotto la guida di Rodolfo Mondolfo, sulle caratteristiche del movimento fascista giungendo, quasi tutti, alla conclusione che il «nuovo» fascismo, quello agrario emiliano-romagnolo esploso alla fine del 1920, era molto diverso da quello del biennio precedente ricollegabile alla Grande guerra e, più esattamente, all'interventismo rivoluzionario. Questo «nuovo» fascismo, ormai divenuto partito politico, era, per costoro, un prodotto della reazione borghese al cosiddetto «biennio rosso».

Con l'andar del tempo la discussione sul significato del fascismo andò sviluppandosi e precisandosi, ma anche caratterizzandosi, in linea con le posizioni culturali e ideologiche degli autori. Nel volume su Le interpretazioni del fascismo, che ne tentò una prima ragionata e organica rassegna, Renzo De Felice esaminò le interpretazioni classiche (liberale, radicale e marxista), quella cosiddetta «transpolitica» nelle declinazioni di Augusto Del Noce ed Ernst Nolte, quella del fascismo come totalitarismo, quelle sociologiche e politologiche e via dicendo. Fece notare, però, come nessuno di questi discorsi interpretati fosse in grado di spiegare il fenomeno fascista in maniera del tutto esaustiva. Per lui l'unico modo di giungere a una piena conoscenza del fascismo e quindi anche a una sua interpretazione era quello di scriverne la storia, seguirne passo passo gli sviluppi, cercar di capire come ragionassero davvero fascisti e avversari.

Malgrado il fatto che il volume di De Felice risalga alla fine degli anni Sessanta e abbia vistose carenze per esempio la mancanza assoluta di attenzione agli scritti dei pensatori liberali della cosiddetta «scuola austriaca» pur tuttavia esso rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per ogni discorso sui caratteri del fascismo. De Felice, poi, come è noto, nella celebre Intervista sul fascismo rilasciata a Michael A. Ledeen qualche anno dopo, individuò alcuni elementi utili per qualificare, dal punto di vista interpretativo, il fenomeno fascista.

Accennò alla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime e riconobbe l'esistenza nel fascismo di una componente rivoluzionaria di sinistra riconducibile per un verso al sindacalismo rivoluzionario che ebbe notevole influenza su Mussolini e, per altro verso, agli sviluppi di una tradizione di pensiero che, partendo da direzioni proprie dell'illuminismo e di Rousseau perveniva ai lidi di quel «radicalismo di sinistra» che, secondo lo storico polacco israeliano Jacob Talmon avevo un diretto progenitore nella cosiddetta «democrazia totalitaria», una democrazia di massa, plebiscitaria, nata all'epoca del Terrore durante la Rivoluzione francese.

De Felice presentava, quindi, il fascismo come una espressione dei ceti medi emergenti, ovvero di quella piccola borghesia che, essendo ormai diventata un fatto sociale, aspirava a una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica del paese, non riconoscendo più alla classe politica tradizionale né la capacità né la legittimità di governare. Infine, individuava profonde differenze fra nazional-socialismo e fascismo tanto per quel che riguardava il loro rapporto con il passato quanto per quel che concerneva il rapporto fra partito e Stato. Quest'ultimo punto era essenziale perché mentre il fascismo avrebbe puntato sulla depoliticizzazione del partito e ne avrebbe così segnato la subordinazione alle strutture statuali, il nazional-socialismo, fondandosi sulla preminenza del partito sullo Stato, avrebbe realizzato un regime totalitario nel senso proprio del termine.

Il problema interpretativo del fascismo è quello centrale del nuovo, denso e importante libro di Beniamino Di Martino, Stretto nel fascio. Nazi-fascismo contro l'individuo (Monolateral, pagg. 424, euro 20), che non soltanto discute con ricchezza di argomentazioni e con finezza dialettica le più importanti posizioni interpretative, ma aggiunge molti nuovi elementi alla discussione. La prima cosa che colpisce l'attenzione del lettore è, per esempio, lo spazio dedicato ai discorsi proprio del mondo liberale che, come ho accennato, De Felice, troppo appiattito su una concezione crociana e neo-idealistica del liberalismo, aveva del tutto ignorato. Le posizioni di Ludwig von Mises espresse nel suo Socialismo, quelle di Friedrich von Hayek contenute nel bellissimo La via della schiavitù, ma anche, vorrei aggiungere, certe splendide pagine di Wilhelm Röpke sulla crisi tedesca e sulla Germania nazional-socialista, contribuiscono a chiarire meglio la natura del fascismo.

L'autore di questo corposo volume, don Beniamino Di Martino, lontano da pregiudizi ideologici e grande conoscitore del pensiero liberale e liberista, attraverso la sua analisi giunge alla conclusione che fascismo e nazional-socialismo sono fenomeni che si traducono in regimi anti-individualisti e di tipo collettivistico, fondati su un centralismo statalista esasperato e su una visione anti-capitalista dei rapporti economici. Si tratta di una conclusione che implica conseguenze, dal punto di vista epistemologico, ben precise e inequivocabili. Innanzitutto, essa mette in luce il carattere ideologico del fascismo e del nazional-socialismo, i quali, prima di tradursi in partiti organizzati e in strutture di regime, sono, appunto, ideologie politiche la cui connotazione è, soprattutto e fondamentalmente, anti-individualistica. Lo stesso termine «fascio» e la stessa retorica dell'«unità» il «marciare uniti» sono in proposito indicativi. Poi, questa conclusione finisce non solo per avallare la tesi di De Felice sulla permanenza di caratteri di sinistra nel fascismo movimento ma per ampliarla fino a comprendervi il fascismo regime e lo stesso nazional-socialismo, che non appare affatto come un regime reazionario o di destra.

In altre parole, per Di Martino, fascismo e nazional-socialismo partecipano della stessa natura che è, oggi si direbbe, di sinistra: essi sono, per così dire, piaccia o non piaccia, un «capitolo del socialismo». Per questo, l'autore si sente legittimato a usare quella espressione, nazi-fascismo che Renzo De Felice non amava e non usava perché, alla fin fine, essa spiega il fatto che entrambi questi movimenti al di là delle apparenze partecipano di quella «spinta verso l'utopia» che li porta a voler trasformare la realtà a costo di mortificare l'individuo, limitare la libertà, comprimere o eliminare la proprietà.

Naturalmente questo tipo di discorso implica tutta una serie di altre conseguenze che l'autore non esita ad affrontare: il rapporto del nazi-fascismo con il comunismo, il suo carattere totalitario e/o autoritario, la sua relazione con la modernità e in particolare con il fenomeno della «secolarizzazione» così ben analizzato da un grande filosofo cattolico, Augusto Del Noce.

Le conclusioni di Di Martino anche quando su punti specifici, per chi è cresciuto alla scuola di De Felice, non appaiono del tutto condivisibili, come per esempio quelle sul totalitarismo sono sempre stimolanti e confermano che siamo di fronte a un volume di grande importanza storiografica.

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