Il concetto di alienazione, per quanto un po' passato di moda, rimane un'idea legata soprattutto a un'attività lavorativa monotona e noiosa, fonte di quel disagio che illustri pensatori e autorevoli filosofi hanno attribuito ora ai «rapporti capitalistici di produzione», ora alla società tecnologica e industriale in quanto tale. Pochi autori si sono spinti oltre la linea di confine dettata dal materialismo, per indagare lo spaesamento dell'anima in una direzione anticonformista, che indica nella secolarizzazione del mondo moderno e nella desacralizzazione del paesaggio la causa principale dell'insoddisfazione umana.
Secondo intellettuali come, ad esempio, lo storico delle religioni Mircea Eliade e l'inventore della psicologia analitica Jung, quando l'uomo ha abbracciato acriticamente l'idea di progresso tecnologico, si è allontanato sempre più dal mondo naturale; così, ha dimenticato una parte rilevante di sé, che segnala il suo abbandono tramite quell'insaziabile irrequietudine che magari un tempo si chiamava malinconia e ora, più modernamente, è diventata, appunto, alienazione. Questa insoddisfazione non dipende, però, soltanto da un'attività lavorativa deludente, ma è alimentata soprattutto da un mondo che sentiamo freddo e disincantato e che ha reciso ogni legame con le dimensioni più profonde del nostro essere, soddisfatte, un tempo, da rapporti umani che non erano esclusivamente mirati al profitto, e da un'idea urbanistica non solo speculativa, che tentava di inserirsi armoniosamente nello spazio circostante.
Una divertente analisi di come tale alienazione presenti dei sintomi presenti in tutto il nostro ex Bel Paese, oggi inondato di villette a schiera e deturpato da periferie a dismisura d'uomo, ci viene offerta da Un pisolo in giardino , un breve e scintillante saggio di Raul Pantaleo, appena uscito in una nuova edizione, a dieci anni di distanza dalla prima, per i tipi di elèuthera (pagg. 18 euro 13). Il titolo fa riferimento all'inarrestabile proliferare, nei giardini delle nostre case, di statuine di gesso raffiguranti soprattutto i nanetti Disney, seguiti a Biancaneve, da Bambi e gentile famiglia al completo, che si affiancano, senza soluzione di continuità, a suggestive Grotte di Lourdes, inquietanti tritoni e sirene che decorano fontane e pozzi che non hanno mai visto l'acqua accanto a grotte che non hanno mai visto il muschio. E sui tetti spiccano galli di latta, grifoni di cartapesta, aquile di stucco, in un bestiario fantastico privo di qualsiasi logica apparente, che noi, evoluti e superiori cittadini urbanizzati, liquidiamo con una sprezzante alzata di spalle definendo il tutto come paccottiglia kitsch.
In realtà, come ci spiega il dotto (ogni riferimento all'altro nano è casuale) architetto Pantaleo, questa selva di segni fantastici che ci circonda segnala l'esistenza di un insopprimibile patrimonio simbolico universale che l'avanzata spietata dei capannoni industriali e dei condomini alveare non è riuscita a soffocare. L'architettura deve riflettere, e soddisfare, i bisogni più importanti dell'uomo, che spesso sono di carattere simbolico e non soltanto utilitaristico, bisogni che emergono, in modo sicuramente superficiale e magari anche rozzo, nei nanetti da giardino che ci riportano goffamente alla dimensione dell'infanzia, più sensibile al linguaggio simbolico dimenticato dal razionalismo imperante. La violenza implicita nell'idea di «condominio», aberrazione mai concepita nei tempi antichi, se si esclude la Torre di Babele, è stata magistralmente descritta da un romanzo di James Graham Ballard, intitolato Il condominio , da cui è stato appena realizzato un film con Jeremy Irons in uscita in autunno, dove le insopprimibili esigenze istintive dell'uomo travolgono le fragili convenzioni sociali trascinando i condomini verso uno stato tribale di una spietata guerra di tutti contro tutti.
Le villette con giardino, costruite dai tanto disprezzati geometri nelle periferie del nostro Paese, sono, quindi, tanto lontane dal buon gusto quanto vicine, nella loro rozzezza, ai valori simbolici radicati nell'animo umano. I nanetti da giardino, in fondo, stanno all'urbanistica come i super-eroi cinematografici stanno all'immaginario collettivo. Gli uni e gli altri non fanno che rispondere inconsciamente al bisogno imprescindibile di una dimensione simbolica che tentiamo invano di ignorare. L'affioramento inconsapevole di una relazione sacra e magica con i luoghi, come scrive l'architetto Luca Molinari nella sua prefazione, corrisponde al bisogno di recuperare un immaginario infantile schiacciato da una realtà troppo adulta e competitiva. La cultura popolare di origine mitico-simbolica, un tempo diffusa e condivisa da una società che era funzionale ed organica, è stata oggi ridotta a una caricatura, quella appunto delle statuine di gesso, che esprimono le paure più profonde dell'uomo, come quella dei mostri e dell'ignoto, ma anche le sue più intime aspirazioni, come quella di avere ali e artigli per sollevarsi vittoriosamente da terra.
Confrontarsi con queste esigenze
sarebbe un dovere primario dell'architettura, che tornerebbe così a svolgere il compito di una buona pratica sociale, svegliandosi, finalmente da quel lungo e solitario pisolo in giardino, diventato un incubo in un condominio.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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