23 ottobre del 1956. Giovani ungheresi, studenti, operai e intellettuali del circolo Petofi scendono nelle strade e nelle piazze di Budapest per manifestare la loro solidarietà nei confronti del lavoratori polacchi di Poznan, che insorti contro il regime sovietico, sono stati brutalmente soppressi dall'esercito fedele a Mosca. Si troveranno quasi in 200mila, a marciare insieme verso il parlamento, invocando il ritorno del ex primo ministro Imre Nagy, defenestrato per aver sfidato il Cremlino e aver opposto numerose obiezioni al suo operato nei paesi satellite dell’Urss.
Per le strade c'è trambusto, fervore, patriottismo, volontà di riscattarsi dal governo stalinista di Mátyás Rákosi e dalla sua polizia politica, l'ÁVH. Alcuni studenti intenzionati a leggere alla radio le rivendicazione del popolo vengono arrestati. Sarà la miccia di una rivolta. Il palazzo della Radio Nazionale viene preso d'assalto. L'intervento della polizia non si fa attendere, e la violenza dilaga nelle strade, dando vita a scontri tra manifestanti, polizia ed esercito. In poche ore milioni di ungheresi si uniscono alla rivolta, gli scontri dilagano nelle periferie e le proteste montano in tutto il Paese. Il clima è quello di una vera e propria insurrezione nazionale fondata su sul crescente spirito antisovietico che è andato maturandosi negli anni di regime. La statua di Stalin, che dominava il parco di Budapest, viene sradicata e smembrata. La gioventù ungherese la sbeffeggia, la vandalizza. Ci scrive sopra frasi di libertà e vendetta. Ci spegne sopra le cicche di sigaretta.
Nel timore di non riuscire a placare la rivolta, il Comitato centrale del Partito comunista decide di richiamare a capo del governo Nagy - ma allo stesso tempo telegrafa a Mosca di inviare l'Armata Rossa, per contenere una rivolta che vede coinvolti milioni di "ribelli" pronti ad imbracciare le armi. Non è come a Poznan. Nagy fa appello ai "compagni ungheresi", promettendo un miglioramento del livello di vita del popolo lavoratore e auspicando un programma di sviluppo che porti ad un processo di "democratizzazione" e all'applicazione di un socialismo ideale. Ma le promesse non sono sufficienti. È troppo tardi. La volontà di perseguire un cambiamento reale è troppo profonda e radicata. È la rivoluzione. Il nuovo governo presieduto da Nagy scioglie la terribile polizia segreta stalinista e libera i prigionieri dai "campi di concentramento", mentre i nuovi "patrioti" liberano il cardinale József Mindszenty, oppositore del regime comunista incarcerato nel 1948. Giornalisti, pensatori, oppositori del regime tornano ad aver voce ovunque nella nazione.
Nel primo giorno di novembre, l’Ungheria, paese satellite che nello scacchiere della Guerra Fredda rappresenta una "bandierina in più", annuncia l'intenzione di uscire dall’alleanza politico-militare dei Paesi comunisti. Di abbandonare il Patto di Varsavia. La risposta di Nikita Chruščёv a Mosca è immediata. Il 4 novembre 200mila soldati e migliaia carri armati sovietici invadano Budapest, che viene assediata da un "anello d'acciaio" (Operazione Turbine, ndr). Gli insorti ungheresi combattono strada per strada, con armi impari, talvolta a mani nude. Indro Montanelli, allora inviato del Corriere, esalta le gesta dei rivoluzionari ungheresi - con "la fascia tricolore al braccio, lo stemma di Kossuth all’occhiello" - narrando la poesia degli operai e degli studenti, dei padri e figli, che si immolano contro i carri armati segnati dalla stella rossa e muoiono per le strade di Budapest mentre "l’Occidente resta immobile". Assisterà alla sublimazione dell’unione delle classi per liberarsi dal giogo comunista. Ad un suicidio eroico che ricorda la resistenza di Stalingrado.
Prima di rifugiarsi in Jugoslavia, Nagy, rimasto a capo del governo, si rivolge alla nazione: "Qui parla il Primo ministro Imre Nagy. Oggi all'alba le truppe sovietiche hanno aggredito la nostra capitale con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d'Ungheria. Le nostre truppe sono impegnate nei combattimenti. Il governo è al suo posto. Comunico questo fatto al nostro paese e al mondo intero". Nessuno, nel mondo intero, rispose. Gli sguardo dell'Occidente era rivolto all'Egitto, dove il generale Nasser imponeva la nazionalizzazione dello strategico Canale di Suez, monopolizzando l'attenzione di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, che di lì a poco avrebbero inviato le portaerei. Nessuno decise di fornire il minimo supporto, neanche morale, all'insurrezione ungherese, che attraverso il sacrificio di migliaia di vite minava più di ogni altro accadimento nel corso della storia contemporanea il consenso di numerosi intellettuali delle sinistre europee.
Perderanno la vita oltre 2600 persone nei giorni della "rivoluzione ungherese". In migliaia invece torneranno nei campi di prigionia o sotto il giogo della polizia segreta, ricostituita durante l'occupazione sovietica. Non spetterà un destino migliore né a Imre Nagy, né a Pal Maleter o al giornalista vicino al governo Miklòs Gimes, i quali, fuggiti in Jugoslavia e Romania, verranno arrestati e condannati a morte dal Cremlino e impiccati tutti nel '58.
La rivoluzione ungherese "nata acefala, senza programmi prestabiliti, senza piani preordinati", "un’autentica rivoluzione di popolo corale e spavalda, all’antica, una vera “pazzia”, come scriverà la penna di Montanelli, non porterà alcun cambiamento "oltre cortina". Ma resterà per sempre simbolo indelebile della lotta per il senso di libertà.
Nel sessantesimo anniversario della rivoluzione, una delegazione italiana parteciperà ai festeggiamenti, e saranno in tanti nell'accoglierli cantando una canzone che molti di voi avranno sentito almeno una volta e che è divenuta il simbolo per la destra italiana. La strofa più bella recita: "Ragazza non dire a mia madre che io morirò questa sera; ma dille che vado in montagna a che tornerò in primavera". A Buda e a Pest, la cantano ancora.
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