La ballata amara di Pianetti per il demone della vendetta

Mauro Garofalo racconta la vita sanguinaria di un assassino seriale nella Val Brembana del 1914

La ballata amara di Pianetti per il demone della vendetta

Sacramentano, non contro il cielo, ma sputando per terra, dove c’è la feccia dell’umanità: il potere. Poi quella frase la buttano lì in dialetto, in bergamasco, quello delle valli. Lo fanno ancora adesso, ripetendo il modo di dire dei nonni dei nonni. «Fà de Pianetti». Fare come il Pianetti. Ce ne vorrebbe uno in ogni paese. Non sarebbe il caso. Solo che quando la rabbia monta certe cose ti vengono alla testa e poi mica lo fai per davvero. Lo dici, ma poi riabbassi la testa e riprendi la fatica, che poi il Pianetti chissà che fine ha fatto. È quasi una leggenda, uno di queste parti, dei tempi quando pure i benestanti puzzavano di miseria, una testa calda, uno che la giustizia è andato a trovarsela da solo, un assassino.

Assassino in serie. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, fino a sette ne ha fatti fuori. Cinque uomini e due donne. Uno alla volta, ma in un solo giorno. Era il 13 luglio 1914. Pianetti esce di casa con il fucile e si prepara alla vendetta, consumata tra Camerata Cornelio e San Giovanni Bianco. Poi si rifugia nei boschi della Val Brembana. Non lo troveranno più.

È sul solco di questa storia che Mauro Garofalo costruisce, voce dopo voce, canto su canto, "Ballata per le nostre anime" (Mondadori, pagg. 348, euro 19,50). Non è una biografia. È un viaggio al termine della giustizia. Si muove girando intorno a una domanda: fino a che punto puoi incassare i colpi della vita? Simone Pianetti è il contrario di Giobbe.

Giobbe sopporta i colpi del destino e non si ribella né a Dio né al fato né agli uomini. La sua pazienza sfida l’assoluto, lo mette a nudo, si sacrifica fino al punto di svelare il gioco di Yahweh. La resistenza di Giobbe è un processo a Dio. Pianetti invece se ne frega di Dio. Non prega, non perdona, semplicemente si vendica di chi considera responsabile della sua disgrazia. Spara.

I capitoli pari sono appunto la sua voce. Simu è bello, con due occhi grigi che stregano le donne, focoso, cocciuto, un combina guai, che non rispetta neppure il padre. La sua famiglia ha fatto i soldi con un colpo di fortuna o con un patto con il diavolo. È un uomo dei boschi, di caccia e di avventura. Dicono che alla sua mira non possa sfuggire nessuna selvaggina, né camosci né orsi. La vita di paese non è il suo orizzonte. Come tanti sogna l’America e la raggiunge. Va a Pittsburgh e per un po’ la fortuna sembra sorridergli. Trova perfino una ragazza dai capelli rossi, con una voce da sirena, di cui innamorarsi. Il guaio è che uno come lui ci mette poco a mettersi contro gli stessi italiani d’America, soprattutto se si radunano in branco in un’associazione malavitosa di una certa fama: Mano Nera. Mano nera come è conosciuta laggiù oltre oceano l’antenata della mafia. Non basta sapere sparare. Pianetti deve lasciare l’America e rinunciare al suo amore. Torna in Val Brembana e si sposa la più bella di tutte, una ragazza con gli occhi da cerbiatto. Si chiama Carlotta Marini e avranno sette figlia. È già abbastanza per suscitare l’invidia dei compaesani. Poi, lui, ci mette del suo: l’arroganza, la spavalderia, il menefreghismo. Ci prova a disegnarsi un futuro. Apre una taverna dove si mangia, si balla, qualche volta si fa peccato. Ci pensa il prete a bollarla come luogo di perdizione, dove i bravi cristiani non devono neppure avvicinarsi. Il parroco è legge e i clienti, con rammarico, si fanno il segno della croce e dal Pianetti non ci vanno più. Simu ancora una volta sopporta. Si trasferisce nel paese vicino, a San Giovanni Bianco e qui, da uomo d’avanguardia, s’inventa un mulino elettrico, una cosa mai vista nelle valli. Spettacolare e innovativa. Troppo. Che marchingegno è questo? Roba del demonio. Ci risiamo. Il Pianetti finisce sul lastrico. Gli è morto pure il figlio per un’appendicite che il medico non ha capito.

Eccoli allora i morti: il medico, il segretario comunale e sua figlia, il calzolaio, il prete, il giudice conciliatore e una donna che non aveva pagato un vecchio debito. Si raccontano nei capitoli dispari, come il controcanto da Spoon River. È la ragione delle vittime. Tutte condannate a morte senza processo di un uomo in cerca di colpevoli, di uno che doveva trovare per forza ragione del fallimento di una vita.

Fugge Pianetti, fugge sul monte Cancervo. Tutti i giornali parlano di lui. Il caso diventa politico. Arrivano i carabinieri. Arriva perfino il reggimento di fanteria «Lupi di Toscana». Non lo scoveranno mai. Che fine ha fatto? Qualcuno dice che è tornato in America. Chi sostiene che sia morto. Chi che sia invecchiato sui monti. Chi che sia morto a Milano, nella casa del figlio. Non si sa come sia stata davvero la sua vita e se Pianetti ha mai trovato la sua felicità.

È

questa la parola che ricorre nella ballata di Garofalo: la ricerca della felicità. «Ti cercheranno ma non ti troveranno mai. Il vuoto a perdere dei giorni. Tutto si dissipa. Nulla conta \[...\] Per essere felici, cosa serve?».

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