Batuman e Halfon, quando il critico è letterato (e viceversa)

Batuman e Halfon, quando il critico è letterato (e viceversa)

Non bisognerebbe scrivere di scrittura. Bisognerebbe (anzi, è facoltativo) scrivere e basta. Dice: ma la letteratura, che cos’è, se non un commento, una chiosa alla letteratura pregressa? L’Ulisse di Joyce è un ulissino piccolo piccolo, e per giunta dublinese, pallido e allampanato, mica mediterraneamente greco e «maschio» come l’originale; i vari Faust, da Mikhail Bulgakov a Stephen King passando per Thomas Mann, si portano dietro il fastidioso fantasma di herr Faust Bojan, un omarino da niente, uno che potrebbe esser stato, in altri tempi e altri contesti, al massimo un figurante d’un racconto di Gogol’.
Scrivere di letteratura grosso modo significa fare critica letteraria, scopertamente o per vie traverse. Oggi è proprio questa la vera letteratura: insomma, sono i critici i «veri» scrittori. Lo affermano, ovviamente, i critici criticando i propri e altrui libri letterari di critica letteraria... Il gatto non si morde più la coda, se la lecca. Ma lo pensano anche alcune «figure» intermedie fra il critico e il letterato. Per esempio, c’è Elif Batuman, classe ’77, statunitense nata da genitori turchi, e c’è Eduardo Halfon, classe ’71, guatemalteco che ha studiato ingegneria in North Carolina. La prima pende dalla parte della critica. Dopo aver scritto I posseduti. Storie di grandi romanzieri russi e dei loro lettori (Einaudi, pagg. 312, euro 20) ha preso a insegnare Letterature comparate alla Stanford University. Il secondo, autore di L’angelo letterario (Cavallo di ferro, pagg. 160, euro 15,50) dà più sul letterario. Collaboratore di Granta, è tradotto in Portogallo, Francia, Olanda, Serbia e Usa.
Ma, all’atto pratico della lettura, i loro ruoli, se così vogliamo chiamarli, s’invertono. Batuman, incline allo sdottoreggiamento friendly tipicamente made in Usa, s’immerge nella russitudine, da Puškin in giù. Si lascia guidare dall’angelo Cechov e dal demone Dostoevskij, insegue le orme di Babel’ e lo «trova» in California, sfarfalleggia nei pressi di Nabokov. Soprattutto, trasforma la sua partecipazione a un convegno di quattro giorni su Tolstoj tenutosi nella location perfetta, cioè a domicilio, a Jasnaja Poljana, in qualcosa fra il giallo-rosa e il diario di viaggio. S’è messa in testa di risolvere il «mistero» della morte di Lev Nikolàevic, e siccome il mistero non c’è, se lo inventa. Letteralmente e letterariamente.
Halfon, invece, in testa s’è messo un’altra idea: risalire ai big Bang degli scrittori, al punto zero in cui Sartre diventa Sartre, Capote diventa Capote, Borges diventa Borges... Il piccolo Jean-Paul, a sei anni, legge le lettere in versi del nonno che gli racconta di quando faceva gite in barca con Henri Bergson; il piccolo Truman, a otto anni, percepisce la propria condanna, la stessa di un’ostrica nella quale penetra un granello di sabbia che diventerà una perla; il piccolo Jorge Luis, a otto anni, traduce Il principe felice di Oscar Wilde, gli pubblicano la traduzione e lui nel contempo stabilisce che se uno vuol essere poeta non deve far altro che imitare Walt Whitman. Poi c’è Katherine Mansfield che vince il primo premio letterario a otto anni, e poi ci sono quelli investiti dalla grazia da grandicelli tipo Hemingway e Carver e Vila-Matas.

Ma Halfon, lungi dall’essere soddisfatto del suo excursus, non si capacita. Che senso ha questo mio libro? si chiede. Quasi quasi ce ne vuole un altro per spiegarlo, si risponde. Lo vedi, benedetto ragazzo, in fondo non sei che il critico di te stesso...

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