Beppe Viola, quello che... lavorava all'Ufficio Facce

Trent'anni fa moriva il grande giornalista sportivo, umorista e paroliere milanese Un tipico esempio di maestro involontario. Che ha avuto troppi (e cattivi) imitatori

Beppe Viola, quello che... lavorava all'Ufficio Facce

In trent'anni ne sono passate di facce, sotto i ponti d'Italia. Molte, purtroppo, anche sopra i ponti, celebrate cioè in pompa magna (due parole magiche, se non profetiche) da quelli che il soggetto in questione probabilmente avrebbe chiamato «i nuovi randa», con accompagnamento di frizzi, lazzi e belle figliole discinte. E tutte quelle facce oggi potrebbero mettersi in fila davanti al suo «Ufficio Facce», in attesa di essere collocate al loro posto: chi a pulire i cessi, chi a far di conto, chi a tenere le publicrelescion. Pensiamo soltanto ai fatti e misfatti recenti: uno Schettino, un Fiorito, un Renzi, un Gabriele, quello del Papa, ma non l'arcangelo, l'altro: gente mica da ridere, nel senso buono e in quello cattivo. Il Nostro e il suo sodale Enzo Jannacci, seduti a un tavolino di Gattullo con un bicchiere di bianco davanti, che cosa non potrebbero ricavarne?

Del resto, in trent'anni abbiamo avuto, nell'ordine: la Milano da bere che ha ubriacato l'Italia intera come in un baccanale da happy hour; il pre-berlusconismo, quello pre-van Basten, per intenderci; Tangentopoli; il primo berlusconismo, quello con van Basten&Co; il post-berlusconismo, cioè il post-van Basten; il titic e titoc prodiano, una melina volta ad addormentare il gioco e l'Italia; il secondo berlusconismo, incarnato da quello che il predetto soggetto in questione avrebbe potuto definire Basletta II, vale a dire Fabio Capello, dove Basletta I era e resta Giovanni Lodetti; e adesso abbiamo il «sobriismo» tassativo, nel senso dell'obbligatorietà istituzionale e della pressione fiscale, che volendo fanno anche rima.

Il soggetto in questione, che era proprio un bel soggetto, non ha fatto in tempo a vedere nulla di tutto ciò, essendosene andato il 17 ottobre 1982, trent'anni fa, appunto. Si chiamava Beppe Viola e anche lui, involontariamente, ha generato un «ismo»: il «violismo», quello di chi vuol fare il Beppe Viola senza esserlo, dei «simpatici» che vogliono essere simpatici senza esserlo. È il destino dei grandi: lasciarsi dietro un corteo di piccoli. Viola appartiene al gruppo dei maestri pigri, dei liberi, liberissimi docenti in Scienze della comunicazione i quali hanno esercitato il proprio talento ben prima che la comunicazione diventasse, contemporaneamente, becero talk show e seriosa materia universitaria, degli osservatori da bar e da tram. I Giancarlo Fusco, i Marcello Marchesi, i Luciano Bianciardi, gente che ha tracciato sublimi ghirigori mentre altri tracciavano pallosissime linee per questa o quella scuola di pensiero. Vent'anni in Rai e 43, quanti gliene sono toccati in sorte, per le strade del mondo, frequentando i palcoscenici dello sport (calcio, pugilato, ippica, motori), del cabaret, della musica e del cinema (memorabile il suo cammeo in Romanzo popolare, con Tognazzi e la Muti, e significativa la sua sceneggiatura di Cattivi pensieri, sempre con Tognazzi).

Di lui ricordiamo il fisico da stopper anni Sessanta sovrappeso e la voce da milanesun, bonaria e calda, nei servizi per 90º minuto o nei cazzeggi alla Domenica Sportiva, magari in compagnia di Gianbrerafucarlo, il «papa» del folbal di una volta. Esordì, quella voce, come ci ricorda l'amico e collega Massimo Bertarelli, in un frangente da tremarella, per un milanista doc. È il 22 maggio 1963, allo stadio di Wembley va in scena la finale della Coppa dei Campioni: Milan-Benfica. Dopo il primo gol di Altafini che vale il pareggio, il collegamento audio con Londra s'interrompe, e al posto del commento di Nicolò Carosio, da studio entra a sostituirlo, senza riscaldamento delle corde vocali e del cuore, preda di una doppia emozione, un ragazzo di belle speranze. Ha 24 anni e gli tocca commentare la fuga in contropiede e la seconda rete del suo e nostro Josè. Un battesimo di fuoco, gestito però in punta di piedi, una tesi di laurea in cravatta rossonera: «Ecco Rivera ha tolto la palla a Raul... ha servito Altafini... solo davanti al portiere... respinge Costa Pereira... rete... ha segnato in questo momento Altafini... due a uno per il Milan». Niente punti esclamativi, anche se sotto si sente fremere il magone. E fu così che la prima nonna dell'attuale Censcion prese la strada per via Turati al civico numero 3.

Basta andare su Youtube per catturare quel frammento. E basta andare su Youtube per scoprire che l'«Ufficio Facce» esiste ancora. Il volpone Diego Abatantuono, che aveva otto anni ai tempi del mitico Milan-Benfica e che nella temperie cabarettistica del «Derby» giocò le sue prime partite, ha voluto titolare così una sorta di X Factor targata Colorado Film per barzellettieri, intrattenitori, sbevazzatori, tiratardi e, ovviamente, facce da pirla. Senza andare al bar, allo stadio, in officina o all'oratorio, la gente manda i propri video per sottoporli al giudizio insindacabile del pubblico. La vis comica è una cosa seria, e per questo non può essere serializzata nel tormento del tormentone, deve rinnovarsi di continuo.

Lui, Beppe Viola, non l'aveva imparato a scuola, lo sapeva per natura. Il mantra della canzone Quelli che...

recitato come un rosario laico e irriverente e che dà il titolo alla raccolta di racconti e battute ripubblicata nel 2009 da Baldini Castoldi Dalai lo dimostra alla grande. Pardis, Il bambino Massimo e Don Alessandro sono lì a dimostrarci quanta buona letteratura abbiamo perso per colpa di una corsa tris o di un Milan-Catanzaro qualsiasi.

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