Il cacciatore del sacro e le sue nobili prede

India, Persia, Giappone, Stati Uniti: cinque anni in viaggio sulle tracce dei cercatori di Dio. Torna "Entronauti" di Piero Scanziani

Il cacciatore del sacro e le sue nobili prede

La sera del 27 giugno 1984 Claude Gallimard e la seconda moglie, Colette, invitano a cena Eugène Ionesco, Emil Cioran e Mircea Eliade con consorte. Chissà se hanno visto la finale dei Campionati europei di calcio. Si giocava quel giorno, al Parco dei Principi. La Francia piega senza problemi la Spagna; segna Michel Platini, il Proust del calcio; raffina il tabellino, al novantesimo, Bruno Bellone, ala solida, scattante, in forza al Monaco. Il clima, a tavola, doveva essere plumbeo, almeno a leggere ciò che scrive Eliade il giorno dopo sul suo Diario (in Italia, stampa Jaca Book): «Ero di cattivo umore, apatico e, infine, depresso. La conversazione generale: si è parlato soprattutto di malattie...». A rasserenarlo, i libri «ricevuti oggi, per espresso», di Piero Scanziani. «Tutti con la stessa dedica: A frate Mircea, frate Piero... La gioia di scoprire, alla mia età, un nuovo scrittore». Negli anni che gli restano - morirà nell'aprile del 1986 - Eliade fa di tutto per diffondere l'opera di Scanziani; spende il suo nome perché gli sia assegnato il Nobel per la letteratura. «Caro Piero Scanziani, come ringraziarLa? Da due settimane mi sono immerso nei suoi libri», gli scrive, in francese.

Nato a Chiasso nel 1908, cresciuto a Milano e a Roma, Scanziani sapeva sedurre: nelle fotografie sorride sempre. Era amico di Massimo Scaligero, e a casa sua, a Berna, ospitò, durante la Seconda guerra, diversi indesiderati e fuggiaschi, tra i quali Sam Benelli, Alberto Mondadori, Indro Montanelli. Anche Ernst Jünger e Cristina Campo leggevano i suoi libri, che Scanziani sceglie di pubblicare, per lo più, con la casa editrice che ha contribuito a fondare, Elvetica. Colto dall'estro degli inquieti, instancabile, pronto a setacciare tutti gli abissi, Scanziani ha scritto, tra l'altro, una biografia di Sri Aurobindo e diversi libri sui cani, di cui era esperto; nel 1997 gli fu conferito il Premio Schiller, riconoscimento andato, tra gli altri, a Friedrich Dürrenmatt, Max Frisch, Philippe Jaccottet.

Nella lettera, in particolare, Eliade fa riferimento agli «straordinari incontri di Entronauti»: pubblicato in origine nel 1969, riproposto ora da Utopia (pagg. 214, euro 17,00), Entronauti è un viaggio tra i «cercatori di Dio», tra i cosmonauti dell'interiorità. Costruito come un azzardo, con il tono del reportage giornalistico (il che significa: schietto, lucido, a tratti ironico, intransigente e senza vaghe speculazioni filosofiche), Entronauti è il regesto di cinque anni di viaggi, dagli Stati Uniti all'India, dalla Persia al Giappone, con un compito: stanare il sacro nel mondo dissacrato, fare lo scalpo agli dèi, discernere la superstizione dal genio religioso. Insomma: salvarsi la vita. Rapinoso e pieno di arguzia, spesso entusiasmante, il libro si legge in un fine settimana; non promette estasi ma costringe al viaggio. La critica all'Occidente - «L'India venera i suoi grandi, noi no. Qui la capacità di devozione è immensa, da noi è immensa la brutalità... Abbiamo ridotto Tasso in cenci, Verlaine alla mendicità, Cervantes in schiavitù, Dante in esilio, Rembrandt alla disperazione... abbiamo buttato i corpi di Mozart e di Leopardi nelle fosse comuni e non li abbiamo più ritrovati» - non cede ai diktat del cliché: in India «non incontro la saggezza, incontro la fame. La fame degli uomini, la fame degli animali, le loro magrezze... Bisogna trovare il coraggio di fissarla».

Scanziani non ha l'ansia dell'esegeta né il fanatismo dell'entusiasta. Sa - cosa rarissima - il proprio ruolo: è uno che passeggia tra le anime, che bordeggia la verità. Di Dio vuole perimetrare la schiena - per Lui non lascerà tutto. In India scorge un eremita, «vincitore dell'Himalaya... Lo guardo e mi domando come ha potuto sopravvivere per decenni a simile altitudine, sopravvivere alle nevi, alle bufere invernali, senza, una stoffa, senza una casa». Apprezza, ama, non cede - Scanziani resta un uomo d'Occidente, un Odisseo nell'orda del naufragio.

Negli Stati Uniti incontra gli scienziati convogliati in California («Colti, enciclopedici, molte lingue, molto interessanti... ma niente saggezza. La saggezza è un'altra cosa. Non è sapere, è conoscere»), in Inghilterra dialoga con una sensitiva, Maggie, in Persia incrocia i sufi («Folli di Dio e spregiatori del mondo, di cui non cercano la gloria, anzi il disprezzo»). In Giappone intercetta Morihei Ueshiba, mitico fondatore dell'Aikido, un vecchio, che gli mostra i prodigi della sua arte sbaragliando orde di allievi agguerriti: «Ha finito, mi guarda. Grandi occhi luminosi, nuovamente turchini. S'inchina e se ne va, lasciandomi una verità essenziale: anche la forza fisica ci viene dall'uomo interiore».

L'ultimo viaggio di Scanziani, il giornalista scalzo, lo scrittore in bilico sulle grandi fedi, è all'Athos, dove Dio, il carnivoro, chiede tutto dell'uomo, e ci si erge sulla spina dorsale di una preghiera, sullo stile di una rinuncia. «Vado all'Athos perché non posso farne a meno: vi sono spinto. La vita m'ha sempre spinto: non ho scelto, ho dovuto». Un uomo, Macario, vive su un albero, «non sempre scende, non sempre parla, spesso canta, talvolta scompare. Le bestie gli stanno attorno, senza timori». Pratica la contemplazione, non mendica, ha fatto Eden del suo corpo, purezza della corruzione. Poi incontra l'altro, Nicodemo, che abita una cella a strapiombo sul mare, vi giunge con la carrucola. Per mangiare si affida agli elementi, a ciò che gli offre la provvidenza. «Gli domando: Aspetti la morte?. La morte? La morte non c'è».

Eccola, la rivelazione

micidiale. Per vivere davvero, bisogna morire questa vita. Che cosa sei disposto a dissipare nella ricerca? Entronauti insegna a squartarsi - e tu resti lì, nudo, bavoso, febbricitante, scabro, e tremi, attendi, ed è tutto.

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