Sono trascorsi cinquecento anni da quando Michelangelo lasciò cadere dai ponteggi il telone che secretava il suo lavoro: 1.100 metri quadrati di pitture sulla volta della Cappella Sistina, l'affresco più vasto di sempre. Al tramonto del 31 ottobre 1512, vigilia d'Ognissanti, Giulio II della Rovere, il papa committente, si inoltrò nel sancta sanctorum per cantare i Vespri. Lo attorniavano una ventina di cardinali. Erano i primi spettatori. Nel silenzio, la luce morente dell'ottobrata romana filtrava dalle finestre. Quando alzarono gli sguardi, non c'erano più pareti, né soffitti, ma un cielo. Anzi, un doppio, limpido firmamento. A colpi di pennello, l'artista aveva demolito la greve volta di mattoni gettata nel 1475 dal fiorentino Bartolomeo Pontelli per ordine di Sisto IV. Al suo posto, campeggiava una «quadratura», una balconata illusoria, architettonica e prospettica. Ai lati corti, due lembi di purissimo celeste, come se la volta s'incurvasse nello spazio d'aria sui fittizi pilastri. Nei pannelli narrativi centrali, altri cieli: quelli della creazione.
La sala era uno shuttle, fremente sulla rampa verso i picchi dell'immaginazione religiosa e umana. Il Vaticano e la cristianità si preparano a celebrare il quinto centenario del lancio. Noi vogliamo qui rammentare il percorso lavorativo del Buonarroti. È una tabella di marcia sbalorditiva. «Questo dì, dieci di maggio del millecinquecento e otto, io Michelagnolo scultore ho ricevuto dalla Santità di Nostro Signore papa Iulio Secondo ducati cinquecento...» leggiamo in uno degli appunti, che con le lettere, i contratti e le ricevute ci orientano sui dati più materiali dell'impresa. Ne emerge la figura di un titano del lavoro. Il ministro Fornero, potendo, l'avrebbe assoldato subito come testimonial. Per Michelangelo l'occupazione non era né un diritto, né una garanzia. Doveva strapparla con i denti, giorno per i giorno. Il Bramante, factotum dell'edilizia papale, l'aveva caldeggiato a Giulio II per invidia, per dimostrare che l'arrogante scultore fiorentino, stella del marmo, con i colori era un buono a nulla. Michelangelo si sentiva sul collo il fiato di Raffaello, il rivale urbinate, che lavorava nelle Stanze, a venti metri dalla camera da letto di Giulio, di cui si era fatto intimo. Gli alti papaveri vaticani protestavano con lui: durante i lavori alla volta, la Sistina era un cantiere, ma intanto le funzioni continuavano, tra colpi di scalpello, polvere d'intonaco, puzza di vernici e solventi.
Il maestro era sotto stalking. La famiglia, rimasta a Firenze, lo pressava. I fratelli battevano cassa. Il padre, da lui venerato, richiedeva continui esborsi. Un soggetto così, oggi andrebbe in analisi. Michelangelo contrattacca con le sue armi: creando. È il più grande esodato della storia dell'arte. Il papa versa l'acconto, poi sfodera la spada per le sue campagne di guerra, e chiude i cordoni della borsa. Intanto i ducati si liquefanno. Il libro mastro del Buonarroti è un colabrodo. Ducati 85 al Rosselli, l'intonacatore di fiducia che monta i ponteggi e prepara il fondo; altri 1500 per gli assistenti, sistemati e mantenuti in baracche intorno alla casa Roma, affittata per 25 soldoni; poi ci sono i materiali e i colori, 125 ducati, che vanno ai gesuati di Firenze, monaci specialisti in terre e pigmenti, come l'azzurro oltremarino, ottenuto polverizzando il lapislazzulo d'oriente, più caro dell'oro. Davanti al pioniere, un oceano di fatica e di sperimentazione.
La traversata dura 4 anni e 5 mesi, senza respiro. Sono 1610 giorni di passione: tolte le festività e le messe, restano 1150 «giornate». La «giornata» è la strabiliante unità di misura, la sfida quotidiana del lavoro michelangiolesco. È la superficie d'intonaco consacrata al pennello. Si misura in ore, brucianti e angosciose. Il muratore ha già steso l'«arriccio», il grezzo manto che si aggrappa all'intera volta. Su questo ruvido strato, stende l'intonaco immacolato, lisciandolo alla fine con pezze di lino. Qui l'artista lavora «a buon fresco». Il fondo si secca nel giro di ventiquattrore. Anche prima, se a Roma spirano la tramontana o il ponentino. Ecco la «giornata». Bisogna dipingere a intonaco umido: è il segreto dell'affresco, con le molecole di colore che per complessi principi fisico-chimici restano intrappolate come cristalli nello smalto del bianco sostegno. È «il più virile, più risoluto e durabile di tutti gli altri modi», scrive il Vasari. Ma anche il più spericolato e stressante. È stile eroico: sbagli e pentimenti si pagano a caro prezzo, con rifacimenti totali. La mano deve essere ferma, inesorabile.
Come nota Michelangelo «non si dipinge con la mano, ma con il cervello», che in un'impresa di questa misura è in perpetua ebollizione. La media della giornata è un metro quadrato, un'immensità, pensando che quell'area definitiva è il frutto di un progetto che abbraccia fasi concatenate. Bisogna ideare il soggetto: è il momento fervido della visione, del sogno. Un mosaico gigante, perché il frammento della giornata deve incastonarsi fluidamente in un insieme da cui si sprigionano armonia e potenza. L'idea diventa un cartone preparatorio. Appoggiato all'intonaco ancora stillante, permette di trasferirvi i contorni della scena: i ragazzi di bottega hanno trafitto le linee con migliaia di forellini, e con un tampone di polvere di carbone ne lasciano l'orma sul morbido impasto di calce e pozzolana. La «giornata» erode tutto il tempo del vivere. Non ne resta, di libero. O si inventa e si disegna, o si pennella. Per mesi, per anni. Non c'è spiraglio neppure per lavarsi i denti. Passavano giorni, prima che l'artista potesse cambiarsi d'abito.
A conti fatti, gli restarono in tasca 300 ducati l'anno. Nessun bonus per la consegna chiavi in mano della macchina da emozioni (e da soldi) più imponente del mondo.
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